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RECENSIONI
lo «diagnostica» (piuttosto che «prognosi») appare sottilmente polemico e in li­
nea con la modernità vichiana. La medicina antica - e la storiografia tucididea
che ne ereditava il portato ermeneutico - aveva il proprio fondamento nell’ana­
lisi dei sintomi finalizzata alla previsione di un felice o infelice superamento del­
la crisi (
crise
, scriveva il Sarpi): e così si radicavano da un lato una concezione
della storia come antidoto dall’iterazione di comportamenti «errati», dall’altro
un’idea ciclica del tempo. Come si è visto, con riferimento a Montaigne, la cor­
rente di pensiero cui Vico sembra affiancarsi rifiuta un appiattimento della
scienza storica a repertorio esemplare, e (fatta salva la teoria dei «ricorsi», che
è frutto della riflessione del Vico più maturo e, comunque, è tutt’altra cosa da
una mera concezione ciclica del tempo) parimenti rigetta la possibilità di valer­
si della lezione del passato in chiave puramente esteriore. Nello stesso passo del
De
uno
, sagacemente commentato da Carillo, il filosofo napoletano prosegue
avendo di mira la conoscenza dei «sensi indubitati dello Stato delle Nazioni»:
rifacendosi ad un emblema della modernità potremmo dire che Vico non am­
mette «naufragi con spettatore», ma sembra esigere una partecipazione attiva
come fondamento dei nuovi saperi.
L’attività diagnostica costituisce quindi la risposta moderna alla fallace pro­
gnosi storica del paradigma indiziario: Vico muove ad appropriarsi delle chiavi
di una tradizione antica, ma la reinventa, e la impiega poi in opposizione a quel­
le stesse matrici culturali da cui aveva ricavato il primo impulso. Si tratta di un
processo dialettico costante, che trova la sua ragion d’essere nel formalismo del­
la riflessione vichiana, nella sua particolarissima filologia (p. 158), da intender­
si come scienza dell’interpretazione storica dei segni linguistici in quanto pro­
dotto dell’attività umana (una scienza autoconsapevole,
verstehenden Wissen-
schaft
osserva Carillo a p. 125 sulla scia di Riedel). Si tratta di un criterio di ve­
rità formale che presenta due aspetti, da un lato esso è «un criterio compositi­
vo, un canone che orienta chi voglia far combaciare i cocci di un vaso o le tes­
sere di un mosaico» (p. 127), dall’altro è il manifestarsi di un’armonia segreta,
invisibile e sottesa alle ragioni stesse dell’indagine. Sovviene alla mente il verso
ossimorico di Eraclito: « l’armonia nascosta è la più evidente».
Il
processo conoscitivo cui Vico perviene, lungo il duplice binario della ra­
gione storica e dell’analisi linguistica, rimarca la necessità di uno strappo, di uno
smascheramento (si può rinviare in merito alle osservazioni di
A . B
attistini
,
La
degnità della retorica
, Pisa, 1975). E così nella
Scienza nuova
del 1730 leggiamo:
«Ma tutte queste, anzi che pruove, le quali soddisfacciano i nostri intelletti, so­
no ammende, che si fanno agli errori delle nostre memorie, ed alle sconcezze
delle nostre fantasie» (p. 175).
Molte altre sono le sollecitazioni che provengono dalla lettura del libro di
Gennaro Carillo, in primo luogo in relazione alla rivisitazione dellVpar omeri­
co e della storia romana; una rivisitazione che:
non risponde soltanto all’esigenza di istituire connessioni transculturali; al di sot­
to di questo primo strato ce n’è un altro, un tema segreto (...): la critica radicale del
giusnaturalismo moderno. Spinta ai limiti del parossismo, l’insistenza vichiana sulla
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