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ALESSIA SCOGNAMIGLIO
la quale l’uomo si avvale non senza ‘sforzo’ e poche difficoltà per intuire
la verità39e dalla quale poi egli deduce la virtù e il suo nome. Ne consegue
che se l’uomo si serve della
vis veri
per vincere l’errore genera una virtù
dianoetica
40 (discorsiva e cognitiva), mentre se egli la impiega per frenare
gli affetti origina una virtù
etica41
(morale). Nel momento in cui la mente
inappagata,
virtute impulsa,
consegue alla ricerca del vero si genera la
pru
denza,
mentre quando l’animo «virtuosamente raffrena la libidine» ha ori
gine la
temperanza
che Vico nel
De constantia
definisce sempre
modera
zione
e nella quale, di conseguenza, egli individua il principio stesso del di
ritto naturale. Se, infine, gli affetti dell’animo sono sostenuti dalla virtù, e
sono privi di ogni timore, si ha la
fortezza.
Queste tre proprietà -
pruden
za, temperanza
e
fortezza -
insieme realizzano la vera virtù, la quale non è
propria della mente finita, bensì di Dio.
Non sembri inopportuna, a questo punto del discorso, una più at
tenta riflessione riguardo la prudenza, ‘proprietà’ sulla quale Vico ra
giona, ancor prima che nel
De uno,
già a partire dal 1708 nel
De ratione,
in quel famoso passo nel quale egli argomenta gli
«incommoda, quae mo
rali civilique doctrinae et eloquentiae nostra studiorum ratio affert afine»:
Circa la prudenza nella vita civile, poiché i fatti umani sono dominati dal
l’occasione e dalla scelta, che sono incertissime, e poiché a guidarle valgono
per lo più la simulazione e la dissimulazione, cose ingannevolissime, quelli
che coltivano il puro vero difficilmente sanno servirsi dei mezzi e con mag
gior difficoltà conseguire i fini; onde, delusi nei propositi e ingannati dai sug
gerimenti altrui, molto spesso si ritirano. Dato, dunque, che le azioni della
vita pratica sono valutate in conformità ai momenti e alle contingenze delle
39 «Haec vis veri est ratio in homine corrupto, quae fuit
verifacilitas
in integro: quia ho
mini integro erat
ad verum potentia
, quea nunc corrupto est infirmitas»
(ibid.
p. 53
[De uno,
§ XXXV], il corsivo è nostro). Ci sembra opportuno rilevare non solo come Vico saldi insie
me, ancora una volta,
facultas
e
omnipotentia,
ma soprattutto come qui si annulli in parte il
principio del
verum-factum,
la cui validità e pertinenza - così ci pare - resta ascritta al solo in
telletto e alla volontà di Dio. Quando Vico dichiara che nell’uomo integro e incorrotto la fa
coltà di attingere il vero coincide con la sua «ad verum potentia» determina certamente una
relazione tra la potenza di Dio e la condizione dell’uomo antecedente la caduta, ma definisce
soprattutto uno scarto incolmabile tra la sfera teologica e quella creaturale, in quanto all’uo
mo solo in potenza è dato di contemplare «l’eterno vero» e giammai gli è concesso di essere
1
'omnipotens
autore delle verità eterne; cfr.
supra
note 4, 23.
40 «Vis veri, quae errorem vincit, est virtus dianoetica, seu virtus cognitionis. Quae, si to
ta demonstratione constat, est scientia, ut mathesis; si tota praeceptis, est ars, ut grammatica,
frenaria; si partim demonstratione partim consilio, ut medicina, iurisprudentia, vel partim
praeceptis partim consilio, ut imperatoria, oratoria, poetica, proprie ‘sapientia’ est appellan
do»
(ibid.,
p. 55
[De uno,
§ XXXVII, 1]).
41 «Vis veri, quae affectus refrenat, est virtus ethica sive actionis, quam ‘moralem’ dicunt»
(ibid.
p. 55
[De uno,
§ XXXVII, 2]).