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ROSARIO DIANA
quali i romani avrebbero «preso» quelle voci dotte, sarebbero - come ab
biamo già ricordato - gli joni e gli etruschi51. Da questa preliminare «con
gettura» deriva il programma vichiano di ricerca ipotizzato e realizzato in
quest’opera: indirizzare «il pensiero a dedurre l’antichissima sapienza ita
lica dalle origini della stessa lingua latina»52.
L’uso che ora e poco prima abbiamo fatto del termine ‘ricerca’ non
è casuale, dal momento che quello descritto nel
Proemium
è il vero e
proprio piano di un’indagine filologica ed etimologica che tende a
ri-co-
struire
un sapere filosofico, ritenuto certo antichissimo ma evidente
mente ancora luminoso, vivente nelle stratificazioni semantiche di una
lingua un tempo parlata: un documento quest’ultimo, sia detto per in
ciso, alquanto insolito per un contenuto abitualmente espresso in pro
duzioni testuali più e meglio configurate. Un siffatto programma di la
voro esige che l’autore si pieghi docilmente alla fatica gravosa del repe
rimento dei documenti, alla pratica complessa e certo non rassicurante
della interpretazione; che si esponga con onestà intellettuale al rischio
di vedere la propria ipotesi smentita dai fatti. In questo suo periglioso
cammino Vico aveva, com’è ovvio, dei predecessori illustri che egli pron
tamente invoca a patrocinio della sua impresa: si tratta del Platone del
Cratilo
e del Bacone dei
Cogitata et visa
53; inoltre poteva contare su di
una consolidata tradizione - poi rifiutata nella
Scienza nuova
54 - che
51 Con riferimento alle «locuzioni dotte», si legge nel
De antiquissima
(pp. 56/57): «Trovo
due dotte nazioni da cui possono averle prese: gli Joni e gli Etruschi (Nationem autem doctas, a
quibus eas accipere possent, duas invenio, Iones et Hetruscos)». Ma cfr. anche
ibid.,
pp. 58/59.
52
Ibid.,
p. 58 («animum adieci ad antiquissimam Italorum sapientiam ex ipsius Latinae
linguae originibus eruendam»,
ibid.,
p. 59).
55
In quest’opera Francesco Bacone, contro la criticata verbosità del sapere aristotelico, ri
valuta la speculazione naturalistica presocratica e magnogreca, nella quale ritiene di aver trovato
«non poche affermazioni accettabili nell’ambito dell’osservazione della natura e dell’assegnazio
ne delle cause» (F.
BACONE,
Pensieri e conclusioni sulla interpretazione della natura o sulla scien
za operativa -
1607 -, in Id.,
Scrittifilosofici,
a cura di P. Rossi, Torino, 19862, p. 378). Tuttavia,
subito dopo dichiara di non voler invocare la «remota antichità» precedente l’«età dei Greci»,
per conferire in malafede alle proprie scoperte naturali quella veste di autorevolezza che va in
vece attinta al rigore del metodo ed alla completezza dell’osservazione (cfr.
ibid.,
p. 382). Scrive
Karl Otto Apel, ricostruendo con pochi e lucidi tratti il retroterra culturale del
De antiquissima,
che in quest’opera Vico «procede ancora da una concezione umanistica o, per essere più preci
si, da una concezione divenuta normativa fin dall’apparire dei filosofi greci: quella secondo cui
la
sapientia veterum,
cioè la sapienza dei poeti antichi, e in definitiva perfino dell’etimologia lin
guistica, sarebbe un velame della verità filosofico-concettuale» (K. O.
A
pel
,
L’idea di lingua nel
la tradizione dell’umanesimo daDante a Vico
[1963], tr. it., Bologna, 1975, p. 435).
54
Cfr. G. VICO,
Princìpidi una scienza nuova intorno alla natura delle nazioniper la quale si
ritruovano iprincìpi di altro sistema del diritto naturale delle genti
(Napoli, 1725), in Id.,
Opere,
cit., voi. II (d’ora in poi
Sn25),
§§ 24 e 29-30, pp. 991 e 994-995. Nel suo capolavoro, quasi in
polemica con se stesso, Vico accennerà al
Cratilo
come a quel dialogo platonico «del quale in