RAGIONE NARRATIVA ED ELABORAZIONE DIALOGICA DEL SAPERE
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guardava a molti resti dell’antichità come a testimonianze di una profon­
da sapienza riposta55. Tuttavia quello che colpisce è che, considerando­
lo attentamente e nel suo complesso, il
De antiquissima
non sembra es­
sere né uno scritto, per così dire, di storia della filosofia - poiché il suo
fine non è la semplice, per quanto legittima,
ricostruzione
storica, con i
mezzi offerti dal metodo etimologico, della cultura filosofica di alcuni
popoli antichi - né un trattato di filosofia in senso stretto - dal momen­
to che in esso non troviamo (almeno non apparentemente e non nelle
dichiarazioni esplicite del suo autore) la
costruzione
di un pensiero filo­
sofico puro. In realtà in quest’opera Vico
ricostruisce
e
costruisce
al tem­
po stesso: sua intenzione è quella di ‘estrarre’ dalla lingua latina il sape­
re filosofico di un remoto passato che evidentemente egli ritiene anco­
ra valido per il suo presente, o, specularmente, offrire ai suoi contem­
poranei ed ai posteri un proprio originale pensiero ‘certificandolo’ con
la dimostrazione storica della sua appartenenza ad un’antica cultura ita­
lica. Questo singolare modo di procedere non sembra denunciare in Vi­
co il puro e semplice bisogno conformistico di attenersi all’«uso comu­
ne» a tutti i filosofi dell’età moderna più o meno «platonizzanti» di
«esporre il proprio pensiero come dottrina de’ più famosi ed antichi, an­
corché mai esistiti, filosofi e sapienti»56; piuttosto è il segno visibile di
altra opera di filosofia», il
De antiquissima
appunto, «ci siamo con errar dilettati»
(Sn25,
§
304,
p.
1128).
Va anche qui ricordato che già nella
Vita
(1723-1728)
lo scritto baconiano
De sapien­
tia veterum
(1609)
veniva definito «più ingegnoso e dotto che vero trattato»
(G. Vico,
Vita di
Giambattista Vico scritta da se medesimo,
in Id.,
Opere,
cit., voi. I - d’ora in poi
Vita
-, p.
38).
55 Come ha scritto diversi anni fa Nicola Badaloni, questa concezione vichiana non va in­
tesa come «un fatto abnorme e fuori dal tempo» (N.
BADALONI,
Vicoprima della «Scienza nuo­
va»,
in «Rivista di filosofia» LIX, 1968,2, pp. 127-148, qui p. 129), dal momento che, al con­
trario, era condivisa da «larghi settori del pensiero europeo da Le Clerc a Newton»
(ibid.,
p.
127). Per una dettagliata ricostruzione e contestualizzazione storica di questa tradizione di
pensiero nella cultura del tempo cfr. inoltre P.
CASINI,
Lantica sapienza italica. Cronistoria di
un mito,
Bologna, 1998, in part. su Vico, pp. 182-196; R.
MAZZOLA,
Vico e l’antica sapienza
italica,
in questo «Bollettino» XXX (2000), pp. 199-211;
M . P
apin i
,
Opzione baroccaper i l ‘De
antiquissima’,
in
Vico e il pensiero contemporaneo,
a cura di A. Verri, Lecce, 1991, pp. 352-
376. E chiaro inoltre che il filosofo napoletano, alla ricerca di un retaggio illustre per il pro­
prio principio gnoseologico fondamentale, foggia «una storia, che è una favoletta o un mito:
l’antichissima sapienza italica»
(B. CROCE,
Lefonti della gnoseologia vichiana,
cit., p. 250); ma
non bisogna dimenticare che per il Vico del
De antiquissima
questa non è ancora una ‘favo­
letta’ e che la sua costruzione denuncia uno specifico stile di pensiero amante, perché biso­
gnoso della comunicazione intersoggettiva, del confronto fra culture.
56 G . GENTILE,
Studi vichiani,
cit., p. 108. È certo fondatissima - sembra anche superfluo
qui doverlo ribadire - l’autorevole esortazione di Gentile a non attribuire alcun valore di ve­
rità alla cornice del
De antiquissima,
ovvero alla tesi di un’antica sapienza italica riposta e agli
esercizi etimologici tesi a dimostrarla (cfr.
ibid.,
p. 107). Ancora nel 1936 il filosofo, scriven­
do a Benvenuto Donati, che gli aveva inviato in visione le bozze del suo libro
Nuovi studisul-
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