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ROSARIO DIANA
un’impellenza da cui è mossa la teoresi vichiana, che non può e non vuo­
le mai assumere la forma di una riflessione elaborata in solitudine57. Un
tale pensiero irrelato, avulso da ogni tradizione culturale, privato di tut­
ti quei termini di confronto storico-filosofici necessari alla verifica del­
la propria fondatezza, rischierebbe di sospendere chi lo avesse concepi­
to in un limbo indistinto facendone poi, in assenza di qualsiasi criterio
affidabile di valutazione, o un «d io» o uno «stolto». «In tutta la mia vi­
ta - aveva già scritto Vico nel
De ratione
, confessando apertamente e con
poche battute dense di sviluppi futuri la vocazione storica ed intersog­
gettiva del proprio filosofare - un solo pensiero ha suscitato in me gran­
dissimo timore: che fossi il solo a sapere; cosa che m’è sembrata perico­
losissima, come quella che presenta l’alternativa d’essere o un dio o uno
stolto»58. Ecco perché - seppure in un quadro contestuale che non può
non rivelarsi fittizio e sforzato - nel
liber metaphysicus
ci troviamo di­
nanzi ad una riflessione filosofica che nasce e si viene svolgendo in un
dialogo articolato con il passato; in un confronto fra due mondi storico­
culturali - quello remotissimo dell’oggetto ricercato e quello più recen­
te del soggetto ricercante - che coniuga in un perfetto equilibrio storia
e filosofia, in quanto l’indagine storica è nel contempo edificazione dia­
logante di un sapere filosofico e la filosofia, refrattaria alle solitarie me­
ditazioni, elabora i propri concetti modulandosi in comprensione stori-
la filosofia civile di Giambattista Vico con documenti
(Firenze, 1936), allora in corso di pub­
blicazione nella collana gentiliana ‘Studi filosofici’, raccomandava allo studioso modenese di
eliminare le pagine «dedicate alla difesa della tesi vichiana del carattere italiano antichissimo
della sua tutta personale ed originale dottrina», poiché gli sembravano «un
tour deforce
ec­
cessivo, da realista che voglia essere più realista del re, in una causa ormai disperata» (lettera
di Gentile a Donati del 10 gennaio 1936, in
G . G
entile
- B.
DONATI,
Carteggio 1920-1943,
a cura di P. Simoncelli, Firenze, 2002, p. 65). Tuttavia bisogna domandarsi - ed è ciò a cui si
sta tentando di dare risposta - perché Vico avverte l’urgenza di utilizzare «a suo modo il mi­
to della sapienza italica» adattandolo «alle formule della ‘metafisica propria’»
(CASINI,
op. cit.,
p. 195).
57 A leggere il riferimento di Vico all’antica sapienza italica come espressione di quel suo
modo peculiare di fare filosofia, così refrattario ad ogni meditazione condotta, in stile carte­
siano, nel più rigoroso isolamento, è anche Eric Voegelin (cfr.
La ‘Scienza nuova’ nella storia
delpensiero politico,
tr. it. Napoli, 1996, pp. 44-45). In un altro contesto, confessando (più o
meno fondatamente) il proprio debito speculativo nei confronti di Zenone, Vico stesso di­
chiara che «l’appoggiarsi tutto all’autorità è camminare da cieco in filosofia, e fidarsi tutto al
proprio giudizio è un andarvi senza nessuna scorta» (G. Vico,
Seconda risposta del Vico,
in
Id.,
Le Orazioni inaugurali, il 'De italorum sapientia’ e le polemiche,
a cura di G. Gentile e F.
Nicolini, Bari, 1968, p. 259; d’ora in poi
Risp. II).
58
De rat.,
p. 215 («Nam id in omni vita unum maxime formidavi: ne ego solus saperem,
quae res plenissima discriminis semper mihi visa est, ne aut deus fierem, aut stultus»,
ibid.,
p.
214).
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