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ROSARIO DIANA
anche al Sosia plautino76. Non si schiude dinanzi a noi «una rara e raf­
finata verità che abbia bisogno, per essere trovata, di una profonda me-
76
«Veramente anche il Sosia di Plauto - scrive Vico -, condotto a dubitare della propria
esistenza da Mercurio, che ha assunto le sue sembianze (come Descartes è indotto in dubbio
dal genio ingannatore...), a forza di meditarci su giunge ad acquietarsi in questo primo vero
[...]: ‘Sed quom
cogito, equidem certo sum
ac semper fui’ (Et vero Plautinus Sosia non aliter,
ac genio fallaci Carthesii [...], a Mercurio, qui ipsius imaginem sumpserat, in dubium de se
ipso adductus, an sit, ad idem instar meditabundus huic primo vero acquiescit [...]. Sed quom
cogito, equidem certo sum
ac semper fui)»
(ibid.,
pp. 70/73). Successivamente, nella
Risposta
alle obiezioni, Vico ribadisce: «Dico anche i Sosi di Plauto, posti in dubbio di ogni cosa da
Mercurio, come da un genio fallace, acquietarsi a quello
‘sedquom cogito, equidem sum» (Ri-
sp. I,
p. 135). Si tratta certo di una citazione filologicamente «non irreprensibile», come nota
Antonio Corsano
(Vico, Plauto e Cartesio,
in questo «Bollettino» IV, 1974, p. 140), anche se
non è questo che qui interessa, quanto piuttosto il fatto - non rilevato nella breve nota di Cor­
sano - che, nel
De antiquissima
con un uso alquanto disinvolto del corsivo, nella
Risposta
con
una vera e propria omissione, Vico ‘taglia’ il
cogito
plautino - escludendo la subordinata co­
struita con il perfetto di
sum-
al fine di ricondurlo a quello cartesiano. Nella famosa scena del-
VAnfitrione
Mercurio, riprodotte su di sé le fattezze del proprio interlocutore, non nega però
Vesistenza
di Sosia, ne mette in dubbio unicamente
l'identità personale
:
«MERCURIO:
Ti ho con­
vinto che tu non sei Sosia? [...]
SOSIA:
[...] Chi sono, se non sono Sosia?». E poi più avanti:
«Certo - dice Sosia guardando Mercurio - che quando lo osservo epensoalmioaspetto[...],
mi assomiglia moltissimo [...]. Ma quando ci penso, non v’è dubbio che io sono
quello che so­
no sempre stato. Conosco il miopadrone, conosco la nostra casa»
(T. M.
PLAUTO,
Anfitrione
, edi­
zione con testo a fronte a cura di M. Scandola, Milano, 2002, pp 143/145 - corsivi miei). A dif­
ferenza del dubbio metodico cartesiano - che nella sua massima estensione erode ogni certez­
za e alla fine del suo percorso trova, proprio nella riflessione del dubitare su di sé, un primo
fondamento nella incontrovertibile realtà di un Io generale, anonimo -, Sosia, per poter ri­
vendicare la sua realtà di individuo e ridurre a finzione il doppio che gli si para dinanzi, deve
appellarsi alla storia personale vissuta in prima persona («sono quello
che sono sempre stato»,
«conosco
il mio padrone,
conosco
la nostra casa»)-,
e può farlo perché questa si impone a lui -
come ad ogni altro individuo la propria - con l’evidenza e F‘autorità’ di ciò che la memoria ri­
conosce ed attesta come ‘accaduto’ a colui che sta ricordando. Alla boria del dio, convinto che
il prodigio provocherà nell’avversario umano la dissoluzione dell’autocoscienza singolare, il
povero schiavo oppone la
hybris
di chi, dopo aver attraversato il dubbio, ritrova nell’afferma­
zione della propria storia individuale, certa e coerente, la consapevolezza dell’identità perso­
nale incrinata dalla somiglianza perfetta con l’altro (sul tema del doppio
ne&’Anfitrione
si cfr.
M.
FUSILLO,
Laltro e lo stesso. Teoria e storia del doppio,
Firenze, 1999, pp. 59-81. Fusillo, che
accenna soltanto al richiamo vichiano del passo plautino, lo definisce sibillinamente, forse in­
tuendo fra le due diverse prospettive le incongruenze taciute da Vico, uno «strano preludio
[...] del
cogito
cartesiano» -
ibid.,
p. 64). Il ‘taglio’ del passo plautino, compiuto da Vico, met­
te in evidenza - come già si accennava - quella parte del ragionamento («ma quando ci penso,
non v’è dubbio che io sono») che lo rende affine a quello cartesiano; ne nasconde però il fina­
le colpo di coda («quello che sono sempre stato»), in virtù del quale riflessione di Sosia si con­
figura come un
cogito
autobiografico - che ogni individuo può ripetere in sé e per se stesso -
in cui r'autorità’ della storia individuale viene chiamata a ‘certificare’ l’identità personale. La
selezione fatta con il corsivo, prima, e l’omissione, poi, per l’accuratezza con cui vengono ce­
sellate, sembrerebbero denunziare in Vico la malcelata consapevolezza di quanto i due pro­
cessi di pensiero siano eterogenei fra loro. Tuttavia in questo caso prioritaria è in lui l’esigenza
di dissolvere le differenze piuttosto che sottolinearle; suo obiettivo è qui quello di azzerare i
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