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RECENSIONI
minciarono a pariare erano «senzienti» e si appropriavano progressivamente di un
linguaggio «divino», sembra un voler sdoppiare ciò che la stessa Luft aveva cerca
to con tanta cura di rappresentare come unitario.
Con la scomparsa della prima generazione dei vichiani di area anglosasso
ne, rappresentata nel modo più autorevole da Max Fisch, Isaiah Berlin e Gior
gio Tagliacozzo, Donald Phillip Verene è la voce anglofona più incisiva su Vi
co. Verene dichiara esplicitamente le responsabilità attuale dello studioso vi
chiano di lingua inglese, costretto a rivolgersi simultaneamente sia a una comu
nità di specialisti, sia a lettori comuni non sempre consapevoli dell’importanza
del filosofo napoletano. Nella prefazione al suo libro più recente, Verene carat
terizza la sua
Knowledge of Things Human and Divine
come un’opera «snoda
bile», tale da poter essere letta o con particolare riferimento a Vico da chi non
ha familiarità con il filosofo napoletano, o con maggior attenzione a Joyce da
coloro che di una tale familiarità sono in possesso.
Rispetto agli altri autori qui esaminati, Verene ha un atteggiamento più disteso
sul rapporto tra presente e passato. Egli ritiene rivitalizzante la recezione joyciana
di Vico e comprende che non ha senso una difesa formale della lettura vichiana di
Joyce. D’altra parte, la posizione dell’A. nel rapporto tra presente e passato è in
dotta dallo stesso Joyce, il quale era solito dire: ‘Non so se la teoria di Vico sia ve
ra; non importa. Quello che importa è che sia utile per me’ (cit. a p. 15). Con uno
sdegno per l’esegesi messo a punto con sottile finezza, Joyce suggerì allo scrittore
danese Tom Kristensen di leggere Vico poiché l’avrebbe aiutato a capire il
Work
in Progress
che divenne poi
Finnegans Wake;
quando poi il suo interlocutore gli
chiese se egli
credesse
nella
Scienzanuova,
Joyce rispose: ‘Non credo in alcuna scien
za, ma leggendo Vico la mia immaginazione cresce in modo molto diverso rispet
to a quando leggo Freud o Jung’ (cit. p. 16).
D’altra parte, Verene non ignora le insidie del rapporto tra presente e passa
to, e a questo proposito cita le parole dello stesso Vico: «ogniqualvolta gli uo
mini non possono farsi un’idea delle cose distanti e sconosciute, essi le giudica
no in base a ciò che è familiare e a portata di mano» (p. 36), ma procede oltre ra
pidamente, spiegando a chiare lettere che il suo scopo nel considerare insieme
Vico e Joyce «non è quello di produrre uno studio comparativo, ma usare Joyce
come una chiave di lettura per comprendere Vico, per vedere se i pezzi dell’o
pera vichiana possano essere ricomposti» (p. 37). L’ A. si sofferma sul concetto
baconiano di ‘prenozione’ come un precorrimento del rapporto di immagina
zione e memoria in Vico (e che riappare in Joyce): «per prenozione», dice Beco-
ne, «intendo una sorta di compendio dell’infinito processo della ricerca. Giac
ché, quando un uomo desidera richiamare alla memoria una qualunque cosa, se
non ha una prenozione o una percezione di ciò di cui è alla ricerca, brancola, si
affanna e si aggira di qua e di là come fosse in uno spazio infinito» (cit. p. 153).
L’intreccio di passato, presente e futuro è tanto teorizzato quanto praticato nel
momento in cui Verene osserva (alle pp. 180-181) che l’invocazione di Vico al
lettore nel paragrafo 349 della
Scienza nuova
del 1744 («ci awanziamo ad affer