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RECENSIONI
ti gli stadi della storia umana e di ripeterne le esperienze e di creare quei miti e
quei riti che rappresentano le concezioni primitive del mondo. E che gli per­
mettono di non dover rinnegare gli stadi precedenti, ma di doverli stratificare
nella costruzione di un senso dell’umano molto complesso. E grazie al «senso
comune», contrapposto al «senso proprio» della moderna filosofia, l’uomo vi­
chiano scopre la sua intima e inequivocabile vocazione all’essenza comunitaria
e perciò politica, «il suo radicamento nelFesperienza collettiva di un gruppo, di
una città, di una nazione, del genere umano» (p. 52).
Ma il momento in cui Pons fornisce la sua risposta più articolata al dubbio
non fugato instillatoci dalla Arendt è nel saggio del 1995 intitolato
Dalla pru­
denza allaprovvidenza.
In questi due concetti, «prudenza» e «provvidenza» ven­
gono individuati i principali termini della questione. Pons snoda il suo discor­
so smentendo la rigida contrapposizione, nell’opera vichiana, tra l’attitudine
verso l’azione politica, «classica», e la propensione teoretica verso l’analisi de­
gli eventi storici, tutta «moderna». Pons non può che insistere sul fatto che far
emergere il ruolo della prudenza non equivale a rinunciare alla ricerca della ve­
rità: per Vico «l’idealemoderno della scienza ammette come valore supremo so­
lo la verità, e dunque non è applicabile al mondo della
praxis,
intesa come azio­
ne politica nel senso greco del tennine. La sola pratica che la scienza moderna
possa concepire è la
pratica theoriae,
l’applicazione di una teoria scientifica che
trae la sua efficacia dalla validità della teoria stessa, ma non può esistere una teo­
ria ‘scientifica’ dell’azione politica, che non è né necessaria né geometricamen­
te deducibile, e resta sottomessa alla contingenza, al caso, alle circostanze, ad
un tempo che non è quello della meccanica» {p. 58).
Non dimentichiamo che nell’edizione di Pons della versione della
Scienza
nuova
1744, che abbiamo già citato, si è scelto di pubblicare in appendice il ca­
pitolo sulla «pratica» della «nuova scienza», capitolo composto dopo il 1731
nelle
Correzioni, Miglioramenti, ed Aggiunte Terze
e poi ripudiato e mai pub­
blicato. Con questa interessantissima parte Vico voleva porre rimedio a quella
che giustamente aveva avvertito come una mancanza dell’opera, di avere cioè
una natura meramente contemplativa e di essere priva di quell’arte diagnostica
che darebbe la possibilità di evitare l’errore nel percorso storico. Cioè di offri­
re aiuto all’umana prudenza evitando la corruzione delle nazioni o rallentan­
dola. Vico sentiva cioè questa scienza «mancare nella
Pratica,
qual dee essere di
tutte le
Scienze,
che si ravvolgono dintorno a materie, le quali dipendono dal­
l’umano arbitrio, che tutte si chiamano
Attive» (Sn30,
p. 511 ed. Cristofolini).
Anche questa scelta editoriale rientra quindi in un’opzione teorica forte che
illustra bene l’interesse di Pons che 0 pubblico francese leggesse questo brano
insieme all’opera intera, e lo fa con un dubbio di fondo: «se Vico rinuncia a evo­
care, nel 1744, la possibilità di una pratica della sua scienza, lo fa per scorag­
giamento morale, o perché egli affida ormai completamente il destino delle na­
zioni alla Provvidenza?» (p. XXIII
deW’Introduzione
alla
Science nouvelle
).
Ed è con grande acutezza che la domanda, nel saggio che conclude il volu­
me, su quel che accomuna Vico e Michelet si converte nella domanda sulla re­
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