RECENSIONI
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frattura e ricomposizione, sempre parziale, tra «storia ideale eterna» e «corso
delle nazioni», tra il fare e il non fare degli uomini, fare e non fare la storia, il
mondo, se stessi, tensione che corre sul filo del paradosso del fare
non intelli-
gendo.
Gli uomini, viene subito esplicitato in apertura, fanno 0 mondo civile
delle nazioni, non la storia; perché il loro fare è fondare e interpretare, reitera­
tamente, incessantemente, sempre costretti dallo scarto ontologico della cadu­
ta alla violenza, alla forza per ritrovare la loro stessa natura.
La metafora della «picciola terra» guadagnata aU’«immenso oceano di dub­
biezze», utilizzata da Vico nella
Scienza nuova
del 1725, è il punto di partenza
del percorso dell’A.; posizione solida, terrestre, e insieme precaria, che necessi­
ta del sostegno della Provvidenza. Luogo terreno, è il caso di dire, del vivere
umano, assediato dagli infiniti rischi di dissoluzione, regressione, e soprattutto
dispersione. Su questa «picciola terra» si mettono in pratica tutti i significati e
le articolazioni e i contrasti del fondare umano.
Il paradosso dell’atto di forza, della
mediazione
della forza, accompagna la
‘naturalezza’ della società umana lungo tutta la sua storia, le sue fasi, che non
possono mai adagiarsi in una naturale durata priva delle tensioni della forza, in­
terna ed esterna, che ne implica la fine, il mutamento, il movimento. Nessuno
degli stadi del corso delle nazioni «singolarmente preso è lo stato naturale» (p.
16).
In questa tensione ineludibile tra tempo ed eternità, fondazione ed inter­
pretazione si uniscono nell’atto drammatico di fare e non fare, accedere e non
accedere al vero, all’eterno. Il tempo, la storia, non cessano di mostrare l’intima
frattura presente in ogni azione umana, la storia stessa è frattura continua del­
l’eternità, frattura in un circolo non perfetto, non ontologicamente omogeneo,
tra uniformità del corso delle nazioni, voluta dalla Provvidenza, e l’umano di­
lettarsi dell’uniforme, fondamento delle umane idee. Ma la drammaticità del­
l’atto interpretativo - interpretare un mondo di cui si ignorano le cause - può
anche ribaltare la debolezza della natura umana, l’«indiffinita natura» della
mente umana, nella sua forza. E proprio in virtù di questa debolezza infatti che
l’elaborazione di ciò che non si conosce diventa trasformazione, e quindi crea­
zione. La «picciola terra» è allora, in questo senso, come un atollo, barriera co­
rallina frutto della formazione e trasformazione degli stessi organismi che la
compongono. E la fondazione, di città e nazioni, non è solo 0 fare il mondo del­
le nazioni, ma fare, fondare l’umanità stessa.
Viene però ulteriormente da chiedersi dove si collochi l’inizio dell’umanità,
se nello «stato delle famiglie» o dalla fondazione delle città. E ancora, qual’è il
rapporto tra società ed umanità? La società, e la naturale socievolezza dell’uo­
mo, già espressa dallo stato delle famiglie, porta immediatamente con sé l’uma­
nità, o non è piuttosto «quest’ultima a trascinare con sé, ad elaborare la natu­
rale socievolezza umana in gradi sempre più complessi» (p. 48)? Le apparenti
ambiguità vichiane a proposito non sono che il frutto del suo netto rifiuto di
ogni ipotesi contrattualistica, fondata a sua volta sull’ipotesi di un consenso con­
sapevole, di una scelta, piuttosto che sulla necessità determinata dalla caduta.
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