AVVISATORE BIBLIOGRAFICO
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zione del sacrificio umano e dell’antropo-
fagia come culti efferati sì, ma originari e
tipici delle religioni politeiste primitive,
professate da molti popoli antichi, ha fa-
vorito, scrive l’A., «il depotenziamento del
topos
della crudeltà impostosi come tratto
caratterizzante della religiosità messicana»
(p. 253). Sicché, seppure relegandolo «fra
le ‘civiltà barbare’», Vico «integra […]
pienamente il Messico nativo all’interno
della storia del genere umano» (
ibid
.). In-
fine, proprio il riferimento alla scrittura
ideografica dell’antico Messico, sostiene
l’A., consentirà a Vico di smontare defini-
tivamente l’idea della presunta sapienza
riposta nei geroglifici egiziani.
Il paragrafo continua poi con un esa-
me della
Idea de una Nueva Historia
General de l’América Septentrional
, pub-
blicata a Madrid nel 1746 dall’erudito
lombardo Lorenzo Boturini Benaduci,
un’opera storiografica che, soprattutto
per la parte dedicata all’antico Messico,
molto deve a Vico e alla vichiana tripar-
tizione della storia in età degli dèi, degli
eroi e degli uomini.
[R. D.]
9. B
ERMEJO
-L
UQUE
Lilian, recensione
a G. V
ICO
,
Obras Retórica (Instituciones
de Oratoria)
, edición, traducción del latín
y notas de F. J. Navarro Gómez. Presen-
tación de E. Hidalgo-Serna y J. M.
Sevilla (Barcelona, Anthropos, 2004), in
«Daimon» XXXVII (2006), pp. 221-223.
10.
B
RESCIA
Giuseppe,
Tra Vico e
Joyce. Quaternità e fiume del tempo
, Bari,
Giuseppe Laterza, 2006, pp. 144.
Nel 1930, parlando del romanzo a cui
stava lavorando fin dal 1923,
Finnegans
Wake
, che chiamava all’epoca
Work in
Progress
, James Joyce chiariva: «io non fi-
nisco mai niente, ho sempre voglia di ri-
scrivere» (A. H
OFFMEISTER
,
Il gioco della
sera. Conversazione con James Joyce
, Roma,
2007, p. 11). Quindi aggiungeva, sempre
riferendosi al proprio lavoro: «Gettare uno
sguardo su
Work in Progress
è come get-
tare il primo sguardo nella bacinella della
creazione. In principio c’era il caos. Ma
anche alla fine c’è il caos» (ivi, p. 14). E più
avanti ancora, accennando alla concezione
del tempo espressa in questa sua ultima
fatica,
Finnegans Wake
appunto – un’ope-
ra aperta, forse «troppo» aperta, che può
scoraggiare il lettore per la polisemicità di
uno stile sforzato fino ai limiti di un so-
fisticatissimo e perciò disarmante speri-
mentalismo linguistico –, lo scrittore ir-
landese dichiarava: «Non c’è azione lineare
nel tempo […] Da qualunque parte il libro
cominci, lì anche finisce» (ivi, p. 20).
Come si vede, sono tutte afferma-
zioni che rimandano ad una pluridirezio-
nale ciclicità, la cui fonte è nella circola-
rità vichiana del tempo storico. Sappia-
mo che Joyce lesse il capolavoro di Vico
la prima volta «intorno al 1905», vale a
dire nel «periodo durante il quale inse-
gnava a Trieste l’inglese» (B
RESCIA
, p.
16), e che molto più tardi fece della
«quaternità» vichiana delle epoche della
storia universale la struttura di fondo di
Finnegans Wake
, articolato appunto in
quattro parti corrispondenti alle quattro
età: degli dèi, degli eroi, degli uomini, del
ricorso.
A questo tema l’A. dedica un lavoro
articolato in tre capitoli ed un’appendice.
Per quanto ci è qui consentito, vorrem-
mo dire che, pur meritorio per il tema af-
frontato, il libro appare forse un po’ inu-
suale, a tratti eccessivamente composito,
sdrucciolevole fino a scivolare in qualche
caso nella dispersione e per molti versi
somigliante più ad una sapiente raccolta
di schede di lettura su cui poter riflettere
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