«MEMOREEVIDENTEMENTEDELL’ESEMPIOVICHIANO»
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è una parvenza […]; e non potrebbe persistere se non come persiste il
nulla, come spasimo; laddove […] le opere persistono come persiste la
realtà, serenamente, eternamente nella nuova realtà. Che cosa è la nostra
vita se non appunto un ‘correre alla morte’, alla morte dell’individualità;
che cosa è il lavoro se non la morte nell’opera, che si stacca dal lavoratore
e gli si fa estranea? È codesta […] la sopravvivenza effettiva, ben diversa
dal rumore mondano intorno […] alle parvenze
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.
Qualche diritto di cittadinanza nell’indagine autobiografica Croce
riconosce alle cosiddette «notizie attestate»: vicende private, notizie di
viaggi compiuti, cronologie di scritti, ecc., di cui si ha informazione e
che possono essere ricostruite solo per mezzo di un’adeguata docu-
mentazione (diari, appunti, brogliacci, taccuini, ecc.). Esse possono
contribuire ad illuminare parti specifiche dell’opera complessiva di un
individuo, ma non servono certo a conferirle quel senso che essa gua-
dagna ai nostri occhi solo quando, entro il quadro più ampio dello svol-
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I trapassati
, in
Frammenti di etica
, cit., p. 35. «C’è questa vita, la vita che ha su-
perato la vita? – si legge in un testo del 1927 che riprende questo tema – Sì, è quella
delle opere che ciascuno di noi (piccoli o grandi che gli uomini si chiamino) esegue e,
nell’eseguirle, tende a distaccare da sé e, perfezionatele, le distacca in effetto da sé af-
finché vivano della nuova vita: pensieri, poesie, azioni, che furono e non sono più no-
stre, che plasmiamo con le lacrime e col sangue nostro, e che ora esistono e persistono
senza più lacrime, senza più sangue, sicure e serene, creature immortali» (
Dal libro dei
pensieri
, cit., p. 42). Più tardi, nel 1943, mentre infuriava la guerra, ritornava sull’argo-
mento ancora con un breve testo in forma di meditazione libera: «In ogni atto con cui
pensiamo il vero, diamo forma al bello, operiamo il bene […] noi sentiamo di staccarci
dal perituro e mortale e d’innalzarci verso l’imperituro, verso l’eterno, e di unirci a
Dio. Ma appunto per questo è assurdo di desiderare, chiedere e sforzarci di pensare la
vita eterna per la parte di noi che è strumentale alle altre e che alle altre e in esse tutte
si consuma: per la nostra ‘vitalità’, che per definizione è il transeunte, il morituro, il
non-eterno» (
La vita eterna
, ivi, pp. 176-177). Alcuni anni dopo, nel febbraio 1951,
Croce rifletteva sulla morte di quella «parte di noi che è strumentale alle altre» e – non
mancando di sottolinearne l’insignificante ineluttabilità per l’individuo – ne coglieva il
senso ancora una volta nei termini propri della operosità, di cui la cessazione della vita
rappresentava una brusca interruzione. «La vita intera – scriveva con distacco il filo-
sofo ormai prossimo alla conclusione della sua esistenza – è preparazione alla morte, e
non c’è da fare altro sino alla fine che continuarla, attendendo con zelo e devozione a
tutti i doveri che ci spettano. La morte sopravverrà a metterci in riposo, a toglierci
dalle mani il compito a cui attendevamo; ma essa non può fare altro che interromperci,
come noi non possiamo fare altro che lasciarci interrompere, perché in ozio stupido
essa non ci può trovare» (
Soliloquio
, ivi, pp. 205 sgg.).
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