ANNARITA PLACELLA
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E il Tulliano e Candido Lattanzio
E Cipriano con Giustino Martire
E i più vicini al secolo apostolico,
Che contra simil corruttela scrissero.
E vollero mostrar la differenza
Del sacerdozio nostro dallo spurio.
Che
l nostro tende al culto dell’Altissimo
E quello al culto d’umana potenza
Se i nostri censor tanto sono empij
Che l’un dall’altro non vogliono distinguere
E pur col loro livore esecrabile
Tra noi l’istesso abuso riconoscono.
Gravina dichiara che proprio Sergardi (fa appunto riferimento alle
«Satire») ha accusato di empietà i luoghi del
Palamede
dove sono scrit-
te le stesse cose che sono state accusate di empietà dei diciannove versi
dell’
Andromeda.
Sergardi, cioè, ha definito empio il fatto che Palame-
de accusa i sacerdoti di utilizzare fraudolenza nelle loro funzioni per
conseguire fini politici, proprio come nei diciannove versi incriminati
Proteo accusava i sacerdoti di usare fraudolenza nell’interpretazione
degli oracoli strumentalizzandoli per ottenere i loro scopi.
Il brano appena citato prosegue (c. 43v):
Onde con estrema impudenza mentiscono
Mentre che all’autor nostro il colpo indrizzano
Per ferir di nascosto il sacerdozio,
Questi censori, ch’hanno maggior odio
Alla cristiana legge e all’Evangelio,
Che al nostro Palamede, ed all’Andromeda
O pur ad Appio Claudio dei Decemviri
O a Papiniano sommo interprete
Nel corso di due mesi addotti al termine;
Senza alcun pregiudizio della cattedra.
Ciò può bastar sin qua agli avversarij,
Onde men vo’ per comparire in opera.
Gli ultimi quattro versi coincidono con gli ultimi tre del
Prologo
edito, dove però è eliminato il verso «Ciò può bastar sin qui agli avver-
sarij» in quanto Gravina, nel pubblicare le
Tragedie cinque
, non voleva
che fosse troppo palese il suo intento di scrivere quest’opera contro i
suoi avversari, anche se questi ultimi colsero molto bene le allusioni in
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