RECENSIONI
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gorio Messere durante il breve periodo di vita di questo cenacolo culturale,
ossia tra il 1698 e il 1701, si legge: «Chi fe’ contrastare sette città, Pilo, Cuma,
Smirna, Scio, Athene, Colofone et Argo per la padria di Omero, se non la di-
gnità della poesia?» (
Della poesia. Lezione prima
, p. 198
v
, in
Lezioni dell’Acca-
demia di Palazzo del duca di Medinaceli
, a cura di M. Rak, t. III, Napoli, Istitu-
to italiano per gli studi filosofici, 2000, p. 193). E sempre nel Settecento,
l’esito «Scio» è attestato pure da Anton Maria Salvini e da Giambattista Fa-
giuoli, senza dire della locuzione idiomatica «andare a Scio», impiegata con il
significato di ‘andare in rovina’, forse per una contaminazione con il verbo
scialare
. E ancora nella novecentesca
Enciclopedia Italiana
alla voce «Chio» si
rinvia a «Scio». Evidentemente Scio è un allotropo di Chio che parrebbe non
dipendere dalla pronuncia del francese.
Quanto poi alla tesi per così dire eclettica della lingua della
Commedia
dantesca, è difficile negare un’originaria influenza di Gravina. Non va però
dimenticato che la tesi era sostenuta fin dal Cinquecento, esattamente da
quando Gian Giorgio Trissino scoprì nel 1514 un codice del
De vulgari elo-
quentia
, dove Dante parla come è noto dei vari dialetti d’Italia e, nella sua ri-
cerca di un linguaggio poetico «illustre, cardinale, aulicum et curiale» (I,
XVII
,
1), ricorre alla similitudine della «pantera» che, al pari di questo linguaggio,
«in ogni città lascia sentire il suo odore e in nessuna si posa» («in qualibet
redolet civitate nec cubat in ulla» (I,
XVI
, 1). Propriamente per costituire que-
sto volgare poetico Dante doveva ricorrere allo strumento della
discretio
, che
per lui voleva dire soprattutto un lavoro di eliminazione delle scorie impure;
invece Trissino, che scoprì il testo del
De vulgari eloquentia
nel bel mezzo
della «questione della lingua», intese il termine dantesco nel significato di
‘mescolanza’, in modo da concludere che la
Commedia
è «piena di vocaboli, e
di modi di dire di tutta l’Italia, i quali per nessun modo si possono dir fio-
rentini» (cfr. B. M
IGLIORINI
,
Storia della lingua italiana
[1960], Firenze, San-
soni, 1971, p. 329). La tesi cosiddetta eclettica deriva quindi da Trissino, un
autore ben noto a Vico, che lo cita nell’ultima
Scienza nuova
, e viene ereditata
da Gravina che può avere fatto da mediatore tra lui e Vico.
Che Dante avesse raccolto «una lingua da tutti i popoli dell’Italia» è per
Vico un argomento che ancora nel 1725 lo avvicina a Omero, che «aveva rac-
colta la sua da tutti quelli di Grecia». Questo parallelo è ribadito sempre in
quello stesso 1725 nella lettera inviata da Vico al suo allievo Gherardo degli
Angioli da cui ho appunto citato (G. V
ICO
,
Opere
, 2 voll., a cura di A. Batti-
stini, Milano, Mondadori, 1990, vol. I, p. 319) proprio per mostrare la piena
sintonia con la tesi della
Scienza nuova
uscita in quello stesso anno. Negli anni
successivi però il pensiero di Vico muta radicalmente su questo punto e meri-
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