RECENSIONI
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dozio» (p. 17). L’A., dunque, sottolinea che, mentre nella precedente produ-
zione, anche letteraria, Gravina esprimeva ottimismo (grazie anche, a mio pa-
rere, a suggestioni dantesche) sulla possibilità del sapiente di rigenerare la so-
cietà, ora tale ottimismo viene schiacciato dalla presa di coscienza della stol-
tezza del volgo e dalla violenza del tiranno. Si può aggiungere, tuttavia, che
queste
Tragedie
rappresentano, in una trasposizione storico-mitica volutamen-
te lontana dalla contemporaneità, una situazione che si era venuta realmente a
creare a Napoli: il ceto civile, che precedentemente aveva espresso delle spin-
te culturali innovatrici e indipendenti dal potere centrale, si era ora andato al-
leandosi con esso. Le
Tragedie,
perciò, proprio con il loro pessimismo, espri-
mono una coraggiosa critica, da parte di Gravina, nei confronti di questa reale
involuzione, che stava avvenendo in quegli anni, del ruolo del ceto medio dei
‘sapienti’. Si può parlare dunque di pessimismo costruttivo. I contemporanei,
del resto, dovettero rendersi conto di tale intento graviniano e la ferocia degli
attacchi che le
Tragedie
subirono nel Regno di Napoli (si pensi a Capasso, in
quegli anni fautore del potere assoluto del sovrano), come anche a Roma, non
si spiega con la semplice presa in giro del basso valore estetico di esse.
Del tutto originale anche l’ultimo capitolo, dedicato alla scoperta che l’A.
ha compiuto dei punti in comune, ma anche alle differenze di fondo, tra il
pensiero politico di Gravina e quello del cardinale Giovan Battista De Luca.
Quest’ultimo assunse un forte rilievo «nel panorama della cultura giuridica
della Roma della metà del Seicento» (p. 121). Gravina non cita mai l’insigne
giurista, ma, sottolinea l’A., è impensabile che la solida preparazione di Gravi-
na «non includesse la conoscenza dell’opera di De Luca» (p. 122). Di partico-
lare interesse è il confronto che l’A. svolge tra le posizioni dei due studiosi
sull’origine dello Stato. De Luca rimane su posizioni tradizionaliste, respin-
gendo «con determinazione l’idea di un primordiale stato di natura al quale
sarebbe subentrato lo Stato»: gli individui sarebbero stati invece «spinti da un
innato istinto di aggregazione» (p. 125). Gravina, come in seguito Vico, affer-
ma, invece, come s’è già detto sopra, che gli uomini si unirono in vita sociale
per motivi di utilità, per sfuggire cioè ai pericoli dello stato ferino. Il confron-
to serrato che l’A. svolge tra il pensiero di Gravina e quello di De Luca, oltre
a indicarci una molto probabile fonte del pensiero politico-giuridico gravinia-
no, ci fornisce pertanto un’ulteriore prova della ‘modernità’ di Gravina, soprat-
tutto in merito alle sue posizioni sull’origine contrattualistica dello Stato (legata
all’utilità, alla necessità di uscire dallo stato originario ferino) che aprono la
strada (pur con le note abissali differenze) al Vico della
Scienza nuova
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A
NNARITA
P
LACELLA
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