GLI STUDI VICHIANI DI EUGENIO GARIN
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con le quali è commista e quasi incorporata»
21
. E una tale separazione
corrispondeva a quella rinvenuta nel corpo dell’opera vichiana tra ‘fi-
losofia’ o ‘scienza’, e ‘credenza’, tra «l’indirizzo stesso della sua men-
te», che lo portava a elaborare «la sua germinale filosofia idealistica», e
i limiti che venivano dal persistente riferimento alla «trascendenza»,
che (venisse da un atteggiamento «ingenuo e sincero» o «timoroso, ri-
guardoso, e cauto») impediva, «con istrazio di tutta la sua mente», «di
raggiungere l’unità del reale»
22
.
In realtà, come giustamente osservava Piovani nel già richiamato
saggio su
Il Vico di Gentile
,
rileggere quelle letture neoidealistiche per
lo più giova piuttosto alla comprensione dei loro autori che a quella
del pensatore napoletano
23
. Ma era con quelle letture che in effetti do-
vette soprattutto presto confrontarsi Garin, poco per lo più contando i
contributi di parte cattolica intervenuti nelle sorpassate diatribe tra in-
terpreti neoidealisti e cattolici di Vico tra le due guerre.
Rispetto ad esse era nel 1947 – ha affermato poi Piovani – che si
poteva fissare una prima svolta degli studi vichiani, da rinvenire pro-
prio nei densi capitoli, su «La diffusione della nuova cultura» e «Giam-
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B. C
ROCE
,
La filosofia di Giambattista Vico
, Roma-Bari, 1980
4
, p. 47.
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Ivi, pp. 133, 135-137. Con uno dei suoi consueti, significativi impieghi delle ipo-
tetiche, Croce affermava che, per raggiungere un’adeguata storia del genere umano, «il
Vico avrebbe dovuto chiudere il suo sistema di pensiero, che in un punto rimaneva
spezzato e aperto alla concezione religiosa; e innalzare la sua divinità provvidente a di-
vinità progrediente», senza essere costretto ad «abbandonare la sua germinale filosofia
idealistica» (ivi, p. 135).
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In particolare, quanto a Gentile, bisogna doverosamente riconoscere tutte le sue be-
nemerenze filologiche ed esegetiche, ed ammettere che il suo volume di
Studi vichiani
costi-
tuisce «un armonico e solido libro che, comunque possa essere giudicato, iscrive perenne-
mente il nome di Giovanni Gentile nell’albo d’oro dei grandi studiosi di Vico». Ciò detto,
occorre riconoscere pure che in effetti Vico non è da parte sua oggetto di una «comparte-
cipazione teoretica profonda», ma piuttosto «un interlocutore con cui è obbligato a fare i
conti», ereditando da Bertrando Spaventa non soltanto tale obbligo, ma anche la sua sicura
soluzione speculativa. «Fondamentalmente, il Vico di Gentile è già in Spaventa. Nelle gran-
di linee, il Vico di Gentile è sempre quello spaventiano», nella costante fedeltà a quel «mo-
dello». L’occhio fisso all’«esito finale, idealistico», dello stesso processo interno all’opera
vichiana fa approdare a «ribadite schematizzazioni di comodo, che sembrano non soltanto
confermare, ma addirittura, per qualche lato, esasperare quelle spaventiane». Insomma,
«Vico rimane – tra i classici filosofici da lui genialmente ripensati e quasi adottati – forse il
meno gentiliano» (P. P
IOVANI
,
Il Vico di Gentile
, cit., pp. 266-299, 272, 319).
A proposito del Vico di Gentile si può già qui ricordare l’accurata
Nota introdut-
tiva
, critico-bibliografica, di Eugenio Garin agli
Studi vichiani
, nella cit. ed. di G. G
EN
-
TILE
,
Storia della filosofia italiana
, vol. I, pp. 367-374.