ENRICONUZZO
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filosofiche di allora e poi sul loro sviluppo, ci porterebbe troppo lonta-
no. Occorre invece seguirlo lungo la ricerca presto iniziata dei nessi di
sviluppo tra l’umanesimo e quel Settecento, nel quale era tenuto pre-
sente anche Vico, dal quale egli aveva preso le mosse.
In proposito è interessante osservare che Garin (il quale ai tempi
della grande antologia del 1941,
Il Rinascimento italiano
, naturalmente
non era ancora pervenuto alla sua più compiuta interpretazione del-
l’umanesimo civile, e quindi neppure individuato già nel Quattrocento
un importante momento di crisi) tracciava tratti di una ‘linea umani-
stica’, di un processo di continuazione-completamento dell’umanesi-
mo, che attraverso Bacone, uno dei quattro autori di Vico, giungeva al
Settecento, e anche a Vico.
sono che veicoli passeggeri» (E. G
ARIN
,
Giovanni Pico della Mirandola. Vita e dottrina
,
Firenze, 1937, p. 219).
A proposito degli studi gariniani sui moralisti inglesi, in essi trapela, ma fuggevole,
qualche interesse, qualche riferimento, a Vico. Cosi il saggio su Mandeville del 1934 –
uno dei migliori di quegli anni, a mio avviso, per intelligenza critica e già spiccata auto-
nomia di giudizio – si apriva con un richiamo ad una celebre degnità vichiana: «‘La
legislazione considera l’uomo quale è, per farne buoni usi nell’umana società, come
della ferocia, dell’avarizia, dell’ambizione, che sono gli tre vizî che portano a traverso
tutto il genere umano, ne fa la milizia, la mercatanzia e la corte, e sì la fortezza, l’opu-
lenza e la sapienza delle repubbliche; e di questi tre grandi vizî, i quali distruggerebbe-
ro l’umana generazione sopra la terra, ne fa la civile felicità’. In questa degnità vichiana
si contiene il motivo inspiratore di molte pagine di un’opera bizzarra e paradossale,
ricca di fine ironia e di profondo pessimismo» (I
D
.,
Bernardo di Mandeville
, in «Civiltà
moderna» VI, 1934, p. 70). La comparazione non aveva però qui seguito, come pure
sarebbe stato possibile a proposito di diverse tematiche mandevilliane: come la deli-
neazione delle «tappe dell’evoluzione sociale» compiuta con «acuto senso dello svilup-
po»; o l’«evoluzione del linguaggio, di origine umana e non donato da Dio o arbitra-
riamente inventato, ma sorto dal gesto, dal grido, forme primitive di espressione, per-
fezionatesi poi collo sviluppo sociale, col moltiplicarsi delle cognizioni» (ivi, p. 90). Re-
sta comunque questo saggio espressione di un interesse critico che si mostra affrancato
da linguaggio e metodo di tipo idealistico, nell’indagine su di un pensiero che, per es-
sere adeguatamente interpretato, va «situato nell’ambiente in cui è sorto e si è svolto»
(ivi, p. 91). Tale ambiente – non negata l’influenza dei moralisti francesi – era specifi-
camente quello inglese, con elementi di affinità e continuità dall’autore riscontrati,
contravvenendo ad una più consolidata linea interpretativa, piuttosto con Locke che
con Hobbes. In precedenza Mandeville era stato maggiormente accostato da Garin a
Hobbes in ordine ad un affine approccio riduttivistico alla sfera morale, per il non
sapere vedere nell’io la capacità di elevarsi oltre la «sfera economica» attingendo a
quella morale: cfr. I
D
.,
L’etica di Giuseppe Butler
, in «Giornale critico della filosofia
italiana» XIII (1932), p. 300.