GLI STUDI VICHIANI DI EUGENIO GARIN
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pio orizzonte e aiuterà a comprendere certe riprese e certi ripensamenti. Ma via
via che di essi afferrerà la genesi vedrà meglio al di là di deformazioni program-
matiche le domande che Vico ascoltò, il campo delle sue esperienze, il valore
delle sue risposte. Nel distacco partecipe, nella memoria consaputa, nel ‘tempo
ritrovato’, nei nessi chiariti, Vico ritroverà le sue dimensioni, la sua genesi, la
sua vita dopo la morte, al di fuori dei miti romantici del precursore frainteso
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.
Vico andava studiato, per conoscerlo, intenderlo bene, fuori di lui
per tornare a lui. Per liberarlo innanzitutto dal suo isolamento, così af-
francandolo dal ‘mito storiografico’ che lui stesso aveva contribuito ad
alimentare.
Guardando più indietro, nella parte stilata da Garin della
Filosofia
vallardiana – ed in particolare nel primo volume (o tomo), scritto per
ultimo negli anni della composizione dell’opera tra il 1940 e il 1942,
pertinente alla stagione culturale umanistica ormai da lui più frequen-
tata e amata
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– ancor più è possibile rintracciare svariati tratti inter-
pretativi che resteranno nella sostanza costanti, e che occorre tenere
presenti pensando alla non semplice, e mossa nel tempo, risposta di
Garin al problema storiografico delle ascendenze rinascimentali del
pensiero vichiano. Su ciò si avrà modo di tornare; anche mettendo a
fuoco la distanza intercorrente tra l’interpretazione gariniana e non
soltanto quella gentiliana, ma anche altre, e innanzitutto quelle riferibi-
li ad una linea Grassi-Apel. Ma già da adesso può essere opportuno di-
re qualcosa attorno ad antecedenti e conseguenze della risoluta scelta
del ‘giovane Garin’ di tenere fuori gli autori studiati da genealogie
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I
D
.,
Osservazioni preliminari
, in
La filosofia come sapere storico
, cit., p. 120. La
lezione di metodo gariniana implicava così una critica più avanzata e fertile all’assurda
pretesa della ‘nuda oggettività’ del sapere storico-filosofico rispetto a quella troppo
agevole, e troppo pericolosa, esercitata dai teorici del neoidealismo nei confronti di
critici troppo deboli della ‘soggettività’ dell’interprete. Così Croce aveva avuto troppo
facile gioco, a proposito del ‘suo’ Vico, a rispondere, nell’
Avvertenza
del 1921, alla
«facile ma superficialissima critica, che l’interpretazione del Vico vi sia tutta compene-
trata dal mio proprio pensiero filosofico, e perciò non sia ‘oggettiva’». Può nascondere
la legittimazione dell’eccesso di soggettività, dell’arbitrio critico, la semplice, ragione-
vole, considerazione che «l’esposizione […] storica e critica di un filosofo ha una di-
versa e più alta oggettività, ed è necessariamente il dialogo di un antico e un nuovo
pensiero, nel quale solamente l’antico pensiero viene inteso e compreso» (B. C
ROCE
,
La filosofia di Giambattista Vico
, cit., p. 9). Considerazione nella quale neppure affiora
il sospetto che un simile ‘dialogo’ possa farsi monologicamente prevaricante.
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Sulle vicende interne dell’elaborazione e redazione del lavoro vallardiano di
Garin si vedano le informate pagine di C
ESA
,
op. cit.
, pp. 26-27.