ENRICONUZZO
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Ancora più in genere, si può affermare che l’umanesimo fu «davve-
ro l’aurora del pensiero moderno» in quanto complessivamente «fu,
veramente, rinnovata fiducia nell’uomo e nelle sue possibilità, e com-
prensione della sua attività in ogni direzione» (almeno fin quando il
«letterato» non degenerava in «vuoto grammatico»)
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: nel quadro di
un processo della modernità, pur vario e non unilineare, nel quale
molte eredità problematiche e tematiche dell’umanesimo avrebbero
trovato proprio nel ‘neoumanesimo’ settecentesco la loro ripresa e il
loro rinnovamento.
ulteriormente il ‘carattere’ antimetafisico, e umano-civile, della tradizione filosofica ita-
liana: «I grandi problemi, il problema stesso del rapporto fra mondo e Dio, sono stati
vissuti nei limiti di esperienze politiche o di meditazioni personali, morali e religiose,
piuttosto che affrontati sul terreno metafisico».
55
I
D
.,
L’umanesimo italiano
, cit., pp. 252-253. Si tratta di pagine che, congiungen-
do l’evidenziazione del carattere della fiducia umana nella sua inappagata e inesauribi-
le operosità a quella del raggiungimento di «una rinnovata armonia», bene esprimono
un’interpretazione gariniana della Rinascenza che successivamente divenne più inquie-
tamente attenta – e non poco sotto il peso della meditazione su esiti, ma anche origini
della modernità – alle ragioni della ‘disarmonia’. Si veda poi p. 121 sull’«atto di accu-
sa», mosso da Pico, contro il «letterato che degenera in vuoto grammatico». Si tratta di
uno dei tanti riferimenti che si leggono nell’opera di Garin a tale nodo problematico e
momento importante del suo vaglio esegetico: se non si intende il quale (e la matrice
‘civile’, l’accento ‘postrisorgimentale’, l’inflessione ‘moralistica’ che lo animano) non si
intendono neppure tante scelte e giudizi suoi, anche relativi a Vico. Non è un caso che
lo storico dell’Umanesimo qualifichi assai negativamente Ficino in qualità di «ispirato-
re, a un tempo, delle più deliranti e fumose divagazioni speculative, e di certi ardimen-
ti ‘platonici’ di Bruno come di Vico»: al termine di una pagina, una delle più ‘desancti-
siane’ (e ‘gentiliane’…) di Garin, costituita da una prolungata terribile invettiva contro
Ficino, inconsueta in uno studioso dalla grande cautela e pacatezza, le quali riafforano
soltanto nella preliminare dichiarazione circa una figura la quale «non sempre riesce
simpatica». A conclusione di una serrata serie di accuse senza scampo, soprattutto di
assoluta vuotezza morale, il ritratto di Ficino era impietoso: «Aveva, in misura non pic-
cola, temperamento di letterato, anima di professore e abito accademico: era di quella
razza d’uomini che illustrarono da allora per secoli l’Italia in decadenza, la cui crisi
politica fu il resultato di un’intima mancanza di fede morale» (I
D
.,
Dal Rinascimento al
Risorgimento
, cit., pp. 300-301). Nell’ed. del 1966 –
Storia della filosofia italiana
, cit.,
vol. I, p. 390 – a confermare e, se possibile, indurire ancora il giudizio veniva aggiunto:
«Fu la fonte di quel gergo platonizzante, retorico ed untuoso, che inquinò lungo il
Cinquecento e il Seicento non piccola parte della produzione filosofico-religiosa euro-
pea». Un complessivo giudizio da tenere presente pensando all’annosa questione sto-
riografica dell’ispirazione e delle lontane fonti ‘platoniche’ di Vico, che chi scrive è
sempre stato propenso a ‘ridimensionare’.
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