ANNARITA PLACELLA
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tore e filosofo e restauratore della Tragedia, perché Cicerone nel III libro
del
De oratore
ha detto che nessuno può giudicare se stesso, dal momen-
to che ciascuno conosce se stesso solo in minima parte
62
. Del resto questa
auto-esaltazione, che tanto irrita Bertolotti e anche altri contemporanei,
primo fra tutti Capasso, deriva dal suo intento, dichiarato sin dall’
incipit
del
Prologo
, di essersi rifatto al prototipo della tragedia classica nel com-
porre le sue
Tragedie cinque
63
, nelle quali, perciò, addita il momento cru-
ciale della riforma di questo genere; da esse, inoltre, porta esempi nel
Della Tragedia
per spiegare come debba scriversi una tragedia
64
.
62
«Minime sibi quisque notus est et difficillime de se quisque sentit» (C
ICERONE
,
De oratore
,
III,
IX
, 33).
63
Gravina, infatti, è convinto, come già nella
Ragion Poetica
, che quella degli an-
tichi poeti rappresenti l’archetipo della poesia di tutti i tempi, al quale deve rifarsi ogni
poeta. Lo ripete nel
Della Tragedia
, p. 580: «non solo con la
Ragion poetica
di tutta la
poesia, ma con questo trattato abbiamo voluto […] esporre quell’idea che nella mente
de’ suoi antichi autori fu impressa dalla conoscenza ed osservazione della natura». Si
consideri la modernità di questa affermazione, più volte già ribadita nella
Ragion
Poetica
: un’analoga dichiarazione di poetica si ritrova persino in Pascoli: l’archetipo
della poesia, lo si chiami
fanciullino
o
Ragion Poetica
, ha le sue radici nella poesia degli
antichi che si fondeva con la Natura secondo Pascoli (per il quale il poeta, nel suo
identificarsi con il fanciullino, non ha altro fine «che quello di riconfondersi nella na-
tura, donde uscì, lasciando in essa un accento, un raggio, un palpito nuovo, eterno,
suo»: G. P
ASCOLI
,
Il Fanciullino
, in
Pensieri e discorsi
, in
Opere
, t. II, a cura di M. Perugi,
Milano-Napoli, 1981, pp. 1637-1686, p. 1685) e secondo Gravina («Siccome delle cose
vere è madre la natura, così delle cose finte è madre l’idea, tratta dalla mente umana di
dentro la natura istessa, ove è contenuto quanto col pensiero ogni mente, o intendendo o
immaginando, scolpisce»:
Ragion Poetica
,
p. 200). Nel
Della Tragedia
, p. 510 («il vero
non invecchia, né muore, ed è il medesimo in tutte le stagioni»), Gravina utilizza per il
vero poetico una espressione molto simile a quella che userà Pascoli (la «vera poesia […]
si trova, non si fa, si scopre, non s’inventa»: G. P
ASCOLI
,
Il Fanciullino
, cit., p. 1685).
64
Della Tragedia
, pp. 528, 540, 546, 552. Nel
Prologo
alle
Tragedie cinque
, inoltre,
nel passo in cui Bertolotti indica come sconvenienti gli elogi di Gravina a se stesso, in
realtà l’autore non fa una sterile auto-esaltazione, ma vuole dimostrare che è necessario,
per chiunque voglia scrivere tragedie, essere «Legista, Oratore, e filosofo» (
Prologo
,
quarta facciata); lo ripete nel
Della Tragedia
, p. 528, dove scrive che non gli sarebbe
potuta bastare la semplice erudizione per comporre le sue tragedie, ma la conoscenza
«d’Omero e dei più antichi Greci» e la «scorta non solo dell’istorie, delle lettere e delle
orazioni latine, ma delle romane leggi ancora, che scoprono i lineamenti più fini del co-
stume e le fibre più interne del governo romano: il quale senza la giurisprudenza, per
entro la sola erudizione assai grossolanamente e confusamente si raccoglie». Questa
importanza data nel
Prologo
e nel
Della Tragedia
al suo essere giureconsulto (nel
Prologo
si definisce, come si è appena visto, «Legista, Oratore, e filosofo») si riflette nel titolo
dato alle
Tragedie
dell’edizione del 1717:
Di Vincenzo Gravina Giurisconsulto Tragedie
cinque.
Sempre nella nuova edizione Gravina indirizza a Paolo Doria dei giambi nei quali
si difende dalle critiche ricevute a seguito della precedente edizione.