RECENSIONI
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È uno di quegli episodi che dimostrano quanto sia difficile chiarire le compli-
cate manovre che gl’intellettuali di quei tempi dovevano fare per portare in
porto le loro imprese. Sotto questo aspetto, lo studio della storia della cultura
italiana è più difficile di quello di altre culture europee, meno tartassate dalla
censura, come la francese o la inglese.
La corrispondenza con Pignatelli dimostra anche che Gravina praticava,
come tutti i suoi contemporanei, la «dissimulazione onesta», perché, nella lette-
ra a Pignatelli del 16 maggio 1711, parla di un «esemplare emendatissimo», che
gli era «stato portato via in Vienna, senza poterlo più ricuperare», quando sap-
piamo dalla lettera ad Ancioni del 1710, che doveva servire per l’edizione di U-
trecht del 1713, sollecitata dallo stesso autore, sebbene Ancioni dichiari nella
dedica di averle fatte stampare di propria iniziativa. Ritengo quindi che si debba
prendere
cum grano salis
quanto scrive Gravina ad Ancioni a proposito di Bru-
no, che Rossi ha interpretato alla lettera: «Agli occhi di Gravina, Bruno, che
non fece il minimo sforzo per conciliare la filosofia con la religione non fu solo
un filosofo empio. Fu anche stolto perché allontanò da sé quel
fructum litera-
rum
che consiste nel procurare a sé la tranquillità dell’animo» (pp.
XI
-
XII
). In
realtà bisogna tener presente che Bruno era universalmente considerato ateo, e
che perfino la tolleranza inglese escludeva gli atei (e i cattolici). È ovvio che
Gravina, in una lettera dedicata in gran parte a Bruno, doveva usare molta cau-
tela. Di qui la frase, che Rossi isola dal contesto, la quale dimostra invece che
Gravina nutriva una grande ammirazione per Bruno, inferiore a Cartesio per il
metodo, ma non per le idee («Etenim Cartesius non tam rerum, quam rationis
atque ordinis nexusque novitate praecellit»). Gravina non nascondeva la sua
ammirazione per gli scritti del Nolano («occurruntque per ejus opuscula plures
vernaculae cantiunculae Philosophiae luminibus mire corruscantes, referente-
sque priscam Italici Styli Majestatem»), ed era dolorosamente consapevole delle
gravi ferite, inferte dai roghi pontifici alla cultura della Penisola («periit ille, pari
cum aliis multis ejus aetatis eruditissimis Italorum infortunio, qui cum exteris
Sacrae autoritatis hostibus clam coiverunt»). Del resto, alla frase in cui taccia di
stoltezza Bruno e le vittime dell’Inquisizione, ne aggiunge una lapidaria, che
suona quasi come un elogio: «inermes ausi, quod armati perhorrescunt». Qui
sembra di cogliere una eco della nota polemica di Machiavelli (autore inviso a
Roma) contro i profeti disarmati. In ogni modo, se si tiene conto non solo della
sua missiva diretta ad Ancioni, ma anche delle attività editoriali di un altro suo
allievo, Paolo Rolli, sembra lecito dubitare che l’insegnamento di Gravina fosse
ligio alla Controriforma.
Lomonaco nota che le
Orationes
non sono state oggetto di ricerche soddi-
sfacenti, perché sono state considerate soprattutto in rapporto al pensiero di
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