GLI STUDI VICHIANI DI EUGENIO GARIN
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sciuto punto di riferimento negli anni del dopoguerra, specialmente a
partire dalla metà degli anni ’50. In tali accesi anni di dibattiti culturali
tanto spesso segnati da una cifra ‘civile’, quando non immediatamente
‘ideologico-politica’, anni di pressione alle ‘prese di campo’, venne ri-
definendosi in modo rilevante l’ispirazione che resse allora l’insieme
dell’attività intellettuale di Garin: sia pure nella già detta persistenza dei
più robusti interessi problematici e, più in profondità, della caratteriz-
zazione ‘morale’ del suo atteggiamento di fondo, non contraddittoria-
mente perciò piuttosto declinata in direzione dell’‘etico-civile’, dell’‘eti-
co-politico’
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; per non parlare, per il momento, di una cifra ancora più
profonda, segreta, a lungo persistente, di quell’ispirazione, vale a dire
quella che chiamerei del ‘trasporto verso la connessione’ (verso ciò che
si dà, a partire dall’umano, come ‘integrale’, non scisso).
In un tale quadro – e magari pensando proprio all’acutissimo senso
gariniano della ‘connessione’– pare appunto difficile separare: l’impe-
gno di riflessione che veniva dall’esigenza di un’esplicita tematizzazio-
ne e trattazione delle problematiche teorico-metodiche, che doveva ac-
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È appunto la persistente presenza di una simile attitudine di fondo alla preoccu-
pazione morale, aperta all’ ‘eticità’ della sua traduzione mondana, anche nel ‘costume
morale’ di una nazione (nel segno peraltro di una tradizione ‘risorgimentale’ ereditata
dal neoidealismo italiano), che può fare considerare non ‘esteriore’ l’impatto dell’‘ir-
ruzione’ di Gramsci nel pensiero di Garin. La cui importanza fu da questi ampiamente
riconosciuta: come chiaramente attestano i
Colloqui
con il Cassigoli, anch’essi tenuti
presenti nella prima parte di questo saggio, ma già le pagine del suo ‘ritratto’, appena
richiamato, effettuato dal Terranova. «La lettura di Gramsci ebbe su me una ripercus-
sione singolare e per tanti aspetti mi fece vedere le cose
in un luce tutta diversa
» (ivi, p.
441). Peraltro, in proposito, la sua vicenda personale appare di sostanziale limpidezza,
se si pensa alla distanza dal fascismo in diversi modi manifestata, nei modi possibili,
negli anni ’30, fino alla fine della guerra (e spunti in proposito si rinvengono anche nel
contributo appena citato del Terranova, pur da utilizzare con la dovuta cautela). Al-
meno per se stesso Garin era in grado di applicare tranquillamente – mi sembra –
quella categoria (e nota tesi di Cantimori) di ‘nicomedismo’ che poteva essere esercita-
ta, e fu esercitata, in modi ipocritamente assolutori verso gli intellettuali passati per un
‘lungo viaggio’ (o anche ‘breve viaggio’) attraverso il fascismo. In proposito Garin eb-
be a ricordare, ma in sostanza a respingere, la critica di avere personalmente «troppo
concesso alla tesi cantimoriana del ‘nicomedismo’» (cfr. E. G
ARIN
,
Premessa
a
Intellet-
tuali e potere nel XX secolo
, Roma, 1996 [nuova edizione], p. XIII). La sua presa di
campo sul terreno ‘teorico’ e ‘civile’, con le sue implicazioni anche sul piano dell’inda-
gine storica, deve perciò essere considerata di rara serietà negli anni del dopoguerra, in
un periodo caratterizzato da tante, e troppe volte disinvolte, ‘conversioni’ (come sap-
piamo meglio anche sulla base di recenti interventi storiografici). Ma ciò rischia di
portarci ancora più lontano dal nostro argomento.