ENRICONUZZO
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va a concludersi nell’idea di un silente (e inverificabile) operare tra-
scendentale nel diritto universale del principio del «verum-factum»
23
.
Ciò significa in primo luogo, mi pare, ‘accettare’ l’elemento di forte
discontinuità che sul ‘vero’ rappresentava la soluzione del
De uno
se
non altro in ragione della prospettiva problematica assunta: il proble-
ma del ‘vero eterno’, delle ‘verità eterne’, essendo più proprio, o alme-
no impellente, del «verum-certum» che del «verum-factum»
24
. Il
De
uno
interviene su ciò perché il suo problema ontologico-gnoseologico
si iscrive in quello umanologico del diritto, dell’agire storico umano. E
mi pare che debba essere ‘accettata’ anche la coerenza della soluzione
trovata, pur se, o proprio se, non spiccatamente, ‘modernamente’,
umanologica (e tantomeno saldamente genetico-antropologica). Coeren-
za che poggiava – a dirla del tutto sinteticamente – sulla ricerca di un
equilibrio tra volontarismo cartesiano ed occasionalismo malebran-
chiano (tra
velle
e
nosse
, e quindi un
posse
non esercitato nella moda-
lità di una volontà arbitraria), anche con presenze concettuali, oltre
che ‘agostiniano-platonizzanti’, ‘aristotelico-scolastiche’ (e quanto a
presenze aristoteliche, non va trascurato il ricorso agli «aliorum dicta»
per intendere le fonti del sapere probabile o verosimile). Una ricerca
che comunque attesta l’impegno ad intervenire autonomamente in una
problematica assai attiva nel secondo Seicento, e non ancora spenta; e
che andrebbe forse meglio studiata in ordine ai percorsi che apriva ad
un agire ordinario della
potestas
divina nel mondo storico: se il divino
velle
, stretto al
nosse
, poteva esprimersi in una
potestas
che avendo a sé
intrinseco l’
ordo
, si esercita soprattutto attraverso una
potestas ordinata
nel mondo delle nazioni. Ed in proposito, sul punto essenziale dei
rapporti tra «nosse», «velle» e «posse», io non mi fermerei alla
soluzione dell’‘equilibrio’ tra gli attributi divini (sulla quale Carillo è
intervenuto con chiarezza e puntualità di discorso), nella loro unità
garantiti da una «implicatio» in fondo ‘doverosa’ da parte del pen-
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E in effetti si è visto come l’interpretazione di Fassò circa i nessi (di contrappo-
sizione, di identità, di fungibilità o conversione, di contiguità, di indifferenza) del
«verum-factum» e del «verum certum» – inappuntabile quanto all’indicazione circa i
silenzi del primo principio lungo tanta parte della meditazione vichiana – poi finiva
con il ricomprendere ‘logicamente’ il secondo nel primo.
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Innanzitutto perché, a dirla rudemente, la considerazione del fare di Dio quanto
alla natura non implica ancora di per sé pronunciarsi quanto al fare di Dio in relazione
alle verità logiche e soprattutto morali, quanto al carattere ‘volontaristico’ o ‘razio-
nalistico’ di tale fare.