GLI STUDI VICHIANI DI EUGENIO GARIN
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processo, di cui Vico era uno dei protagonisti, di sottrazione della na-
tura al sapere umano: sottrazione che, peraltro, poteva avere invece
benissimo una forte valenza religiosa, da ricondurre in primo luogo al-
l’agostinismo teologico seicentesco (ben lontano da ‘platonismi agosti-
niani’ comunemente posti in campo).
In proposito può risultare eloquente un sia pure ‘interstiziale’ riferi-
mento a Vico in uno scritto gariniano degli anni ’30, a proposito del signi-
ficato in termini di religiosità dell’abbandono della lettura della natura a
fondamento ‘partecipativo’ del divino, in un processo di «laicizzazione»
apertosi con la posizione umanistica della conquista della «dignitas» nella
«creazione di un
regnum hominis
»: processo che condurrà a separare
«umanità e divinità», «quando vichianamente si precluderà ancora una
volta all’umano sapere il mondo naturale, da cui lo spirito umano si viene
quasi ritirando via via che distingue da sé l’intelletto divino»
78
.
Qui, in queste pagine, in questi anni, il Vico di Garin potrebbe
essere letto, in ipotesi, pure come un momento della sua biografia in-
tellettuale: quando – in una fase sua di amarezza e immalinconimento
che andava sfociando in paralizzante disillusione – il filosofo napole-
tano avrebbe potuto divenire davvero, a suo modo, un suo ‘autore’,
idoneo a contrastare, con il conforto della rivendicazione di un umane-
simo fondatore della modernità (e sempre più poi laicizzatosi), esiti an-
tiumanistici di questa
79
. In tal senso Vico – il povero Vico, ‘commoven-
te’ nelle minute traversie della sua vita, eppure insediato nella più
78
Sono parole che si leggono in chiusura del saggio
La ‘dignitas hominis’ e la
letteratura patristica
, in «La Rinascita» I (1938), p. 146. Insomma, Vico era già visto (e
continuerà ad essere visto…) in una condizione intellettuale nella quale il riconosci-
mento dell’alterità della natura non viene letto anche secondo possibili inflessioni ‘reli-
giose’. Può essere interessante sapere che Garin nel 1975 – in una lettera a Piovani –
giudicasse quel lontano scritto «ormai troppo vecchio, e tutto consumato, anche se
credo che quando uscì, nel ’38, un significato lo avesse»; per cui ammetteva di essersi
«un po’ dispiaciuto» che, senza avvertirlo, fosse stato riprodotto in una dispensa lito-
grafata (Torino, 1972; cfr.
Bibliografia degli scritti…
, cit, p. 185).
79
Si dirà tra poco come in svariate lettere degli anni ’70 della corrispondenza di
Garin con Piovani, spesso – accanto ad osservazioni, suggerimenti, propositi, relativi
agli studi vichiani – emergano le ‘confessioni’ oltre che di un grande ‘fastidio’ dinanzi
a pochezze e vizi del presente, di una ‘singolare stanchezza’ intellettuale e umana al
venir meno di ogni residua fiducia in un qualche ‘procedere’ umano (cfr. Archivio
della Fondazione Piovani – d’ora in poi reso con la sigla
AFP
–, lettera del 12 ottobre
1976, cartella 6/i). Sono espressioni che possono essere riportate, a documento di
momenti di una biografia intellettuale, non disgiungibile da un vissuto tendenzial-
mente malinconico, in quegli anni fattosi assai sofferente e ‘fastidito’.
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