logica e del pressappochismo concettuale. Proprio alla fine dell’intro-
duzione (che è una lucida sintesi di un programma di ricerca sempre in
movimento) si può leggere una frase importante, che non riguarda solo
il modo di interpretare Vico, ma l’intero stile filosofico al quale conti-
nuamente Vitiello ci richiama. «La tensione in cui si dibatte il pensiero
di Vico pone noi davanti a questo ineludibile problema: se non sia
necessario […] mutare la grammatica del pensiero, la grammatica det-
tata da Aristotele, la grammatica del linguaggio ridotto a puro signifi-
cato» (p. 21). Dove affiora e riaffiora una delle questioni teoriche di
fondo con cui, attraverso Vico, Vitiello si cimenta: quella del linguag-
gio, un linguaggio che sia inteso innanzitutto come la vera misura
antropologica originaria e che si articoli non solo nella lingua parlata,
ma ancor più in quella immaginativo-iconologica delle originarie lingue
scritte, e scritte non solo sulla materia pietrosa delle are e delle steli, ma
su quella viva del corpo che canta e lancia grida di terrore dinanzi al
mistero del fulmine. La grande intuizione di Vico fu quella di voler far
vedere l’idea della storia ideale eterna con gli occhi del corpo. Siamo
dinanzi a una insuperata dicotomia nel ragionamento vichiano che non
riesce (ma per me non si tratta di un elemento di debolezza speculati-
va, anzi della sua forza, al contrario di quanto sembra pensare Vitiello)
a ricostituire in unità il doppio movimento tra la voce originaria e la sua
successione storico-temporale. E, tuttavia, anche se Vico non riesce,
per Vitiello, a fuoriuscire dalla gabbia del significato, si tratta, pur sem-
pre di un importante esercizio, di una «
pratica del limite
, utile anche a
comprendere come, noi ‘alessandrini’, possiamo ancora avere esperien-
za viva e reale delle cose, e del mondo, e forse di Dio, attraverso il lin-
guaggio. È possibile – possibile, non certo, non sicuro – segnare dall’in-
terno della parola l’invalicabile confine della parola» (p. 74).
Credo, infine, che Vitiello ponga in questo, come negli altri libri
apparsi negli ultimi anni, un grande e complicato problema filosofico,
l’origine del sacro, la individuazione del suo luogo non sopra o al di
sotto del tempo e della storia, non al di là o al di qua, ma prima di essi
e, addirittura prima di Dio. Ma è questo anche il problema di Vico?
Proprio leggendo le pagine che Vitiello ha dedicato a un grande mae-
stro di studi vichiani, Enzo Paci, ho ritrovato conferma di un mio con-
vincimento e cioè che Vico possa e debba essere letto in una chiave pre-
valentemente
umanistica
, senza dare al termine nessuna valenza retorica
ed ideologica e, tanto meno, antireligiosa. Si tratta della pratica tutta
umanistica della ricerca della medierà tra universale e particolare, una
GIUSEPPE CACCIATORE
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