gioie) dell’imperfezione (ridere, correre, morire). Ma ciò non è cosa che
riguarda Vico (al quale c’è da domandarsi peraltro quale «conforto» su
ciò avrebbe potuto arrecare l’ellenizzato Vangelo di Giovanni), ma la
meditazione su Dio di Vitiello (e magari pure di chi scrive).
Vico era dunque tutt’altro che preoccupato dal problema delle
‘determinazioni’ di Dio, dei suoi ‘attributi’ (e vi sarebbe già da discu-
tere circa i caratteri delle posizioni – neoplatonico-plotiniana e cristia-
no-agostiniana – il tentativo, fallito, di «mediare» tra le quali sarebbe
alle origini del
De antiquissima
8
. Al contrario, era precisamente interes-
sato non alla figura enigmatica e indicibile dell’onnipotenza, ma a quel-
la della divinità «saggia» e «benigna», in grado da fungere da fonda-
mento di una benevolente provvedenza, ed operante secondo una fer-
missima, «eterna», struttura di «ordine», la «storia ideal eterna». Non
è un caso che Vico, anche quando (nel
De uno
) ancora non parte ‘dal
basso’ (ma mai parte totalmente ‘dal basso’), allora fornisca un’idea di
Dio che resta in sostanza ferma lungo il seguito della sua vicenda medi-
tativa. A questa idea però appunto mancando la dimostrazione, la
Scienza nuova
può fornirla
a parte historiae
, per così dire.
Ma il
minuere
a cui guarda con maggiore attenzione Vitiello, e la ri-
sposta ‘dal basso’ a cui pensa, fa riferimento alla conoscenza umana in
quanto
episteme
(della civiltà occidentale), scienza che contiene il
cer-
tum
come
pars veri
, ma non può, tradendolo, non diminuirlo, fino a
contraddirlo; fa riferimento al linguaggio che separa il pensiero dalla
realtà, la parola dalla cosa, e quindi si scinde, pur quando vuole dirlo,
dal linguaggio pratico-gestuale delle origini, la «lingua eroica», la ‘lin-
gua-gesto’, in cui indissolubilmente sono compenetrati voce e gesto. È
questo un punto assai denso e bello del discorso di Vitiello, che inne-
gabilmente, e non senza acute argomentazioni filologiche, mette in luce
una forza del pensiero vichiano finora largamente sottaciuta. E ne met-
te in evidenza punti di tangenza con momenti della riflessione contem-
poranea, specie di ispirazione ‘ermeneutica’, che riguardano i limiti del
linguaggio, l’irriducibilità del corporeo, e così via.
Ma, ancora una volta, fino a che punto Vico e fino a che punto inve-
ce ‘oltre Vico’? Tanto che egli – come leggiamo nella pagina
In limine
del libro – «piuttosto dominato dal suo pensiero» che in grado di domi-
narlo, si trova implicato in «sorprese» che non riguardano soltanto i
suoi interpreti, ma in primo luogo lui stesso?
ENRICO NUZZO
120
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Ivi, p. 39.