li ha questo principal proposito d’essere socievole». Detto altrimenti,
da un lato v’ha l’uomo caduto e debole, l’uomo-bestia, posto in difesa
ad aggirarsi davanti ai bisogni della vita; dall’altro v’ha la
natura
ordi-
nata non prodotta dall’uomo ma, tutt’al più, a lui imposta per correg-
gerne le «avventatezze». La «provvidenza» fa sì che la storia sia il rife-
rimento dell’azione dell’uomo al principio che è dentro all’agire e tut-
tavia lo trascende per vincere le particolarità irragionate, discorsive e
distruttive. Siffatto principio è «la storia ideale eterna» su cui corrono
in tempo le storie delle nazioni, però, attenzione, un principio la cui
«guisa» è da ritrovare «dentro le modificazioni della nostra medesima
mente umana», non fuori, perché «chi medita questa scienza egli narra
se stesso questa storia ideale eterna», ed «egli, in quella pruova ‘dovet-
te, deve, dovra’, esso stesso sel faccia, perché ello avvenga che chi fa le
cose esso stesso le narri, ivi non può essere più certa l’istoria».
Possiamo concludere come Vico conclude. Il principio formale che
assicura regolarità alla storia non trascura i caratteri e gli elementi mate-
riali della vita, perché se li cancellasse, negando la caduta dell’uomo,
cancellerebbe la sua stessa necessità, affermerebbe le «avventatezze» del-
l’uomo, contestando «il ‘dovette, deve, dovra’ essere» della storia che,
attraverso questo principio, trascorre dal contingente al corso ideale
eterno. Credo sia chiaro come Vico, senza essere anticipatamente stori-
cista, abbia aperto la via allo storicismo, consentendo il passaggio da una
rinnovata ontologia (quella della storia) al congedo dall’ontologia che si
consuma circa due secoli dopo di lui, quando di storicismo potrà effet-
tivamente parlarsi come di una filosofia consapevole di se stessa e perciò
all’altezza del suo tempo, dei problemi del suo tempo. Che sia così lo
mostrano le interpretazioni e le utilizzazioni che Vico ha ricevuto, specie
in ambito di filosofia civile, la «filosofia tutta di cose» cui, vichianamen-
te, guardano i ‘riformatori’ napoletani del Settecento e dopo di loro i
loro eredi, protagonisti della rivoluzione che chiude il secolo riformato-
re, per aprirne un altro, in nome di un’altra dialettica tra «autorità» e
«libertà di far», tra «ordine» e «avventatezze», che non si compone in
moderatismo e conservatorismo – come rozzamente s’è detto – ma in
una iniziativa ‘democratica’ conscia dei problemi del presente.
F
ULVIO
T
ESSITORE
FULVIO TESSITORE
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