mente non ha senso, in quanto il problema medesimo non sussiste:
semplicemente
si parla –
perché si ha bisogno di parlare e si parla nel
modo in cui storicamente si è riusciti meglio a codificare una lingua
effettivamente comunicativa.
Eppure c’era chi, come Vico, non si sarebbe certo fermato qui, riu-
scendo a scorgere sentieri, magari impervi e spesso oscuri come le dire-
zioni che intenderebbero seguire, ma ben più capaci di addentrarsi
sulle contrade del dire. Per poterli anche solo scorgere, però, occorre
innanzi tutto ricostruire e decostruire una certa lettura dei testi vichia-
ni che è venuta via via imponendosi, onde render possibile l’emergere
di ciò che questa stessa lettura lascia nel non detto.
La critica, soprattutto negli ultimi cinquant’anni
1
, è andata focaliz-
zando la sua attenzione sul tema del linguaggio e sulla sua funzione
decisiva all’interno dello sviluppo del pensiero vichiano. Ciò, tuttavia,
è avvenuto tramite una progressiva esclusione dell’elemento sonoro
dall’analisi, o, almeno, tramite una progressiva riduzione del suo ruolo
nel costituirsi del linguaggio stesso. Si è giunti così ad ascrivere a Vico
la tesi per cui il linguaggio sarebbe nato afono, prevalentemente mimi-
co, gestuale e iconico. Ciò porta naturalmente a sostenere che l’esigen-
za fondativa del dire sia stata un’esigenza eminentemente comunicati-
va e pratica, parte integrante del tessuto sociale e civile cui gli uomini
del
tempo oscuro
stavano dando vita. Procedendo su questa via, la
tematica del linguaggio è stata intesa sempre più dal punto di vista delle
odierne discipline linguistiche e semiotiche – che fanno appunto del
concetto di segno e comunicazione i loro cardini – e sviluppata con una
sempre più forte tensione verso l’aspetto
pragmatico
del dire stesso
2
.
Per quanto tale approccio abbia avuto non solo il merito generale di
dimostrare l’effettiva centralità del tema nell’opera di Vico, ma anche
ANDREA SANGIACOMO
148
1
In P. P
IOVANI
,
Per gli studi vichiani,
in
Campanella e Vico,
Quaderni dell’«Archivio
di filosofia»
,
Padova, 1969, pp. 69-95, vengono ricostruite la storia e le tendenze della cri-
tica vichiana tra la fine dell’Otto e la prima metà del Novecento, caratterizzate dall’im-
porsi dell’interpretazione neoidealistica su quella risorgimentale. In questo contributo,
Piovani rilevava l’originalità del filone di studi decisamente intrapreso poco prima da
Pagliaro, sul quale concentreremo soprattutto la nostra attenzione. Materiali per un’ana-
loga ricostruzione si possono anche ritrovare nel precedente lavoro di A. J
ACOBELLI
I
SOLDI
,
G. B. Vico. La vita e le opere,
Bologna, 1960; dove, per altro, si notava già, in meri-
to alla lingua degli dèi, come «non è vero che tale lingua sia del tutto muta» (p. 401), rilie-
vo che vedremo come verrà invece lasciato cadere dalla critica successiva.
2
Coerentemente con l’impostazione generale del pensiero linguistico del secondo
Novecento, almeno a partire dalle
Ricerche filosofiche
di Wittgenstein.
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