come qualcosa di posteriore e intrinsecamente arbitrario, sviluppatosi
in fasi successive dell’evoluzione linguistica. Mentre il gesto, in quanto
di per sé figurale, ben si adatta ad essere pensato come simbolo – e
quindi significante – di una certa cosa reale che richiama mimeticamen-
te, il suono, invece, al di là dell’onomatopea, non sembra intrattenere
nessun rapporto naturale con le cose e quindi il suo esserne assunto a
simbolo significante appare naturalmente più un frutto di convenzione
che non un dato
naturale.
Ma perché ad un certo punto si sarebbe dovuto introdurre un ele-
mento così sfuggente e poco adatto a rispecchiare la realtà, come il
suono – del quale tuttavia le nostre parole consistono? La postulata
convenzionalità, lungi dal rispondere a questo interrogativo, ammette
implicitamente la sua insolubilità.
Quando nel suo saggio del 1961, Antonino Pagliaro rivendicherà
l’assoluta centralità del tema del linguaggio nella riflessione vichiana –
di contro alla marginalizzazione più o meno spiccata delle letture pre-
cedenti –, non muterà tuttavia lo stato della questione su questo punto,
anzi, servirà semmai a canonizzarlo. Non solo, infatti, viene esplicita-
mente riconosciuto che «il Vico postula l’esistenza di un parlare muto,
che abbia preceduto il parlare fonico»
5
, ma si rileva anche come
il punto cruciale del passaggio dal linguaggio, come intuizione poetica, al segno
della lingua volgare, che indica un sapere, di ordine diciamo così teoretico, rima-
ne insuperato, sia per il lato esterno del significante, sia per quello interno del
ANDREA SANGIACOMO
150
ne il pensiero vichiano, trovando forse solo nell’immagine un termine di possibile
mediazione. Ne risultava che: «senza l’immagine non è possibile nessun rapporto e nes-
suna sintesi. […] Grande merito del Vico è quello di aver scoperto l’origine spontanea
del linguaggio come espressione del sentire senza avvertire che diventa atto muto e si
serve di oggetti simbolici, per svolgersi infine in lingua articolata. La fenomenologia del
linguaggio è anzi, in lui, quella stessa del mito, poiché il parlare è creazione di immagi-
ni e di simboli, e la parola il primo segno dell’umano, la sintesi dell’immanente e del
trascendente» (pp. 119-120). In merito, tuttavia, si potrebbe notare come la presenza
di un’aporia o di una tensione speculativa irrisolta, non necessariamente debba trova-
re un termine di ricomposizione, ma possa anzi esser segno di un pensiero che va rac-
cogliendo –
cogitando –
elementi non immediatamente riducibili gli uni agli altri, nel
qual caso, l’aporeticità è di per sé testimonianza e dimostrazione di questa incomponi-
bilità. Ciò è precisamente quanto avviene per la riflessione vichiana sul linguaggio in
generale, e sul suo elemento fonico in particolare.
5
A. P
AGLIARO
,
Lingua e poesia secondo G. B. Vico,
in I
D
.,
Altri saggi di critica seman-
tica,
Firenze-Messina, 1961, p. 406.