Ci sarebbe invece da chiedersi perché tanti critici abbiano sentito il
bisogno di postulare in Vico una tale fase ‘mutola’
9
. Una possibile ri-
sposta può forse essere trovata scorrendo le pagine dell’
Introduzione
alla semantica
di Tullio De Mauro, nella quale si legge:
la storia del pensiero linguistico dall’antichità al primo Novecento pone dun-
que dinanzi a un’alternativa dilemmatica. O rispettiamo le idee direttrici e le
tecniche di tale pensiero, e arriviamo però a concludere che la comunicazione
non è possibile […]; oppure, se questa conclusione pare assurda, se non sem-
bra contestabile l’esistenza di questo fattore familiare e primordiale che è il
comunicare tra gli uomini, è necessario andare in traccia del comune errore
che può essere presente nelle disparate direzioni di pensiero e di indagine
della cultura linguistica tradizionale, isolarlo, mostrarlo tale. […] Una tradi-
zione plurisecolare ha quasi sempre perduto di vista che, in realtà, le forme lin-
guistiche non hanno alcuna intrinseca capacità semantica: esse sono strumen-
ti, espedienti, più o meno ingegnosi, senza vita e valore fuori dalle mani del-
l’uomo, delle comunità storiche che ne facciano uso. In altri termini, l’errore
sta nell’affermare e nel credere che le parole o le frasi significhino qualche
cosa: solo gli uomini, invece, mediante le frasi e le parole, significano
10
.
Posto in questa prospettiva, l’assunto vichiano di un’origine muta
delle lingue nonché l’intrinseca insignificanza dell’aspetto fonico, risul-
tano senz’altro non una pecca quanto un potenziale elemento di forza,
un passo nella direzione del carattere puramente
pragmatico
del lin-
ANDREA SANGIACOMO
152
9
Cfr. P. R
OSSI
,
La vita e le opere di Giambattista Vico
(1968), ora in I
D
.,
Le stermi-
nate antichità e nuovi saggi vichiani,
Firenze, 1999, p. 37: «il parlare muto ‘per cenni o
corpi ch’avessero naturali rapporti all’idee che volevano significare’ precede il parlare
fonico; la rappresentazione pittorica e geroglifica precede la scrittura alfabetica che è
prodotto di convenzione». Concorde anche I. B
ERLIN
, nel suo testo del 1976,
Le idee
filosofiche di Giambattista Vico
(tr. it. Roma, 1996): «noi non solo parliamo o scriviamo
in simboli, ma pensiamo e possiamo pensare soltanto in simboli, o in parole o in imma-
gini: linguaggio e pensiero costituiscono una sola cosa. […] I primi esseri umani, i sel-
vaggi primitivi, allo scopo di comunicare usarono segni naturali o gesti, che Vico chia-
ma ‘atti muti’: l’indicazione di qualcosa di reale che sta per altre cose che rassomiglia-
no ad essa, o la rappresentazione pittorica di qualcosa che sta al posto di tutta una clas-
se di entità che le rassomigliano. Ciò avvenne, per esempio, per i geroglifici […]. Per
questo motivo egli ritenne che la scrittura precedesse il linguaggio» (pp. 60-61).
Analoghe tesi si rintracciano poi in G. W
OHLFART
,
Vico e il carattere poetico del linguag-
gio
, in questo «Bollettino» XI (1981), pp. 56-95; e in A. B
ATTISTINI
,
Teoria delle impre-
se e linguaggio iconico vichiano
, ivi, XIV-XV (1984-1985), pp. 149-177.
10
T. D
E
M
AURO
,
Introduzione alla semantica,
Roma-Bari, 1999
4
(I ed. 1965), pp.
30-32.