Giove, il cielo fulminante, l’
ingens sylva,
non sono solo metafore o
ipotesi fantasiose – se non del tutto arbitrarie –, quanto piuttosto ele-
menti che devono servire a caratterizzare lo scenario entro cui si dovet-
tero muovere i primi uomini, entro il quale doveva rendersi possibile
una certa esperienza, la quale di per sé, a sua volta, non poteva avere a
che fare con alcun genere di ‘significare’:
l’avvertire il cielo con animo
perturbato e commosso
è un trovarsi improvviso e immediato – dunque
anche ingiustificato e senza alcuna continuità con il prima – innanzi
all’enormità di qualcosa che si impone come orizzonte stesso di ogni
successiva esperienza. In origine, il dio parla e l’uomo
non
capisce. O
meglio, così ricostruiamo noi: perché, propriamente, guardando solo al
bestione
, c’è unicamente il non capire, l’
incomprensibile
– letteralmen-
te inafferrabile, giacché viene a sovrastarlo come un tutto, un cielo – e
quindi nemmeno la comprensione che quel ‘cenno’ è un ‘parlare’
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.
Tale comprensione verrà solo dopo e dall’alto del percorso evolutivo
fatto, quando si proietteranno cioè sul passato quelle categorie neces-
sarie a comprenderne l’esperienza originaria, categorie che, tuttavia,
nel momento in cui l’esperienza stessa era vissuta, non erano affatto già
operanti, anzi, non si erano ancora nemmeno formate. Ed è precisa-
mente quest’incomprensibilità dell’esperienza religiosa, in cui la prima
umanità si trova sprofondata in qualcosa che l’accerchia e l’assedia, che
la caratterizza come essenzialmente angosciante.
VICO E LA VOCALITÀ DEL LINGUAGGIO
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Di contro all’idea di un ordine razionale presupposto e comunque sempre ope-
rante nella natura umana, notevole è il contributo fornito dalle analisi di G. C
ARILLO
,
Vico. Origine e genealogia dell’ordine,
Napoli, 2000, dove si sottolinea fortemente che
«non tutto, in Vico, ricade sotto il dominio della scienza: c’è un tempo, per esempio, la
condizione eslege, che resta
fuori dagli schemi,
fuori da ogni
fondatezza,
da ogni appro-
priabilità metodica. È inevitabile che lo sguardo su questo tempo, indocile a qualsiasi
principio ordinante, incontri uno strato di
Diesigkeit,
di ‘caligine’; ed è altrettanto ine-
vitabile che di quest’
oggetto,
di questa ‘materia’, non si dia affatto scienza, nel senso tra-
dizionale dell’
episteme
», da cui segue come, per comprendere il tempo oscuro, sia
necessaria una
catabasi
«che abbia soprattutto il senso di una riduzione a zero, a un
grado in cui la natura umana è ridotta al silenzio dell’autocoscienza» (p. 173). Sicché
«la
lettura,
l’interpretazione del fulmine (la prima teofania, da cui nascono al tempo
stesso l’idolatria e la divinazione), è un atto incosciente, irriflessivo, né libero né volon-
tario, che presuppone ‘stupore’, ‘teoplassia’, pari alla ‘ferocia’ dell’interprete, del desti-
natario del messaggio. Né può presupporre altro, in quanto sono proprio il grado zero
o l’impotenza, la debolezza, della mente a fare dei primi ‘poeti’, gli interpreti di quei
cenni divini» (pp. 249-250). Del medesimo saggio, si tengano presente anche le analisi
dedicate alla ricostruzione del tempo oscuro e dell’emergere della civiltà dalla primige-
nia paura del divino (cfr. pp. 181-297).