Angoscia da intendersi come la percezione del venir meno di un
orizzonte abituale e familiare entro cui ogni movimento segue con una
semplicità quasi meccanica – il mondo dell’animale così come è descrit-
to da Herder stesso – in favore dell’aprirsi di qualcos’altro, che si deter-
mina proprio in quanto negazione di ogni determinazione, revoca di
ogni familiarità, dissolvimento di ogni senso di appartenenza o intimi-
tà: il ‘non sentirsi a casa propria’, l’angoscia dell’uomo che si percepi-
sce entro qualcosa di più ampio che lo avvolge come un’ombra –
e per
questo
lo rende incapace a una funzione specifica, lo libera dall’identi-
ficazione univoca con un certo fare o agire – non è una condizione da
sempre data, ma qualcosa che
accade
e accadendo porta con sé l’aprir-
si dello stesso orizzonte storico.
In tal senso, l’angoscia è
passione,
in quanto gratuitamente patita da
un essere – quello che sarà l’uomo – il quale né l’ha chiesta né l’ha cer-
cata, ma giunge a scoprire la propria identità proprio nella misura in
cui si scopre destinato a una simile esperienza.
Nonostante la letteratura critica vichiana fin qui esaminata margina-
lizzi – quando non tace del tutto – la relazione tra linguaggio e
pathos
religioso
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, il riconoscimento del ruolo dell’angoscia e della caratteriz-
zazione angosciante dell’esperienza originaria non può essere conside-
rato tratto accessorio, giacché, ad un tempo, esclude che nella notte
della storia potesse darsi qualcosa come un ‘segno’ – presupponendo
quest’ultimo la possibilità di comprenderlo come tale, laddove l’ango-
scia dei bestioni deriva proprio dal loro avvertire senza intendere, dal
ANDREA SANGIACOMO
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P. Z
AMBELLI
(
Dalla paura alla parola… Idee rinascimentali e lucreziane in Vico,
in
Vico und die zeichen/Vico e i segni
, cit.), osserva che «Vico alle origini della storia natu-
rale e umana non pone felicità, perfezione, armonia, pace, comunicazione limpida e
facile, che solo per un trauma successivo (Babele) si deteriorerà. Egli pensa che i
‘bestioni’ primitivi siano in pericolo, soffrano nel bisogno, in una solitudine dolorosa,
senza potersi intendere né concertare con i loro simili» (p. 201). Tuttavia, l’aspetto reli-
gioso di questa prima esperienza pare messo in secondo piano, laddove Zambelli pro-
segue poco oltre: «l’origine del linguaggio corrisponde a bisogni primari, come trova-
re riparo dalle intemperie e dalle folgori, procurarsi il cibo, difendersi dalle fiere e ben
presto dalle orde di altri selvaggi. Non si tratta dell’apparire di vocazioni teologiche o
poetiche, si tratta in prima istanza nella fase ‘divina’ soprattutto di bisogni elementari,
non diversi da quelli per cui secondo gli etologi gli animali riescono a capirsi con gru-
gniti e smorfie» (pp. 201-202), il che è senz’altro lucreziano, ma non per questo vichia-
no – e anzi nella spiccata componente religiosa della prima esperienza linguistica va
posta l’originalità di Vico rispetto a Lucrezio. Per altro, invece, va comunque ricorda-
ta la centralità che i già citati studi di Cantelli conferiscono al tema.
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