Come reazione intenzionale all’inintenzionale stato di angoscia ori-
ginario, la parola è e deve essere intesa essenzialmente come suono che
mantenuto vivo, spandendosi, articolandosi in successione, articola,
scandisce e divide l’indistinto originario. L’urlo viene modulato, ritmi-
camente e melodicamente: si fa canto e nel suo procedere
temporale,
in
successione,
articola
nomi
–
nomoi – canti rituali
, che non già imitano le
differenze tra le cose, ma le
inventano
, le
istituiscono.
Il canto riprodu-
ce l’ordine delle esperienze di mondo: è originariamente una
teogonia
,
l’emergere successivo e progressivo delle figure del distinto, le immagi-
ni determinate degli dèi. I primi
nomi
sono quei primi canti rituali con
cui si articola l’urlo dell’angoscia, articolato intenzionalmente per arti-
colare il silenzio opprimente del Tutto: ogni nuovo nome è nuovo in
quanto diverso, e in quanto diverso individua una diversa modulazio-
ne, quindi una diversa
forma
di quel suono originario e indistinto.
La prima parola dice il nome del mistero per fuggirne il silenzio, e
il suo dire appartiene all’esperienza stessa di questo mistero, così come
la fuga da esso. Proprio perché di fuga si tratta, la prima parola deve es-
sere
subito
trascesa, superata: il variare dell’esperienza dell’angoscia im-
plica il variare della modulazione del suono originario, dunque il diver-
sificarsi dei nomi. E la differenza è precisamente ciò che la fuga cerca,
giacché solo appellandosi alla differenza si può smembrare l’oscurità
impenetrabile e confusa del dio oscuro, farlo a pezzi e trasformare que-
sti pezzi in ‘cose’. Solo il fuggire che lasci dietro di sé
diversi
scenari e
diverse
esperienze può pensare una qualche lontananza da ciò che
fugge, e non restare piuttosto inchiodato sempre nella stessa posizione
– al semplice urlo animale che risolve ed esaurisce in sé medesimo il
proprio senso.
La semplice voce, l’elemento in cui quotidianamente viviamo e pen-
siamo, in quest’ottica inizierebbe a mostrarsi come qualcosa di ben più
inquietante, esso stesso memoria e cicatrice di una prima antichissima
esperienza, vivendo la quale, si decise della nostra umanità. Effetti-
vamente, come emerge da quanto abbiamo visto prima, va riconosciu-
to che non c’è né mediazione né continuità tra questa forma arcaica di
linguaggio e quello posteriore, edulcorato, distante da ogni passione,
con cui parla la logica della ragione dispiegata. Ma ciò non accade a
caso: la medesima fuga dall’angoscia da cui sorge il primo dire, si volge
contro di esso e contro di esso lotta per liberarsene, in quanto troppo
legato e troppo radicato in quell’
ingens sylva
da cui sorgono tutte le sue
parole. L’oblio di quell’esperienza unica diventa quindi lo scopo perse-
ANDREA SANGIACOMO
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