GLI STUDI VICHIANI DI EUGENIO GARIN
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Se farete il Vico del ’25, sarò molto lieto – e se vorrete davvero le mie in-
degnissime pagine, le accoglierete come offerta votiva. Non ho mai preso in
mano quel libretto senza commuovermi un poco, e ripensarne e rivederne le
vicende – della stampa, prima, e poi di quell’andare per le vie di Napoli evi-
tando i conoscenti… È stato un grandissimo ma anche un carissimo uomo,
anche quando era ‘impossibile’
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.
Poteva essere fonte di una qualche trepida commozione «ripensa-
re», «rivedere» il debole Vico di una povera travagliata esistenza. Ma
tanto più ora non poteva essere di un qualche conforto intellettuale il
Vico che aveva creduto di cogliere con la sua «scienza» un sicuro sen-
so nel «mutare» delle cose umane:
Ma cosa mai di nuovo? Quanto mi pento di aver creduto anch’io che, in
qualche occulta profondità, il mutare fosse anche un procedere, e che, come
diceva un poeta una volta a me molto caro, sarebbe possibile rendere agli altri
la vita un po’ meno triste
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.
Ancor più, in questa stagione disillusa, Garin non poteva sentire
come profondamente ‘suo’ Giambattista Vico: piuttosto invece il più
disincantato, cupo, Leon Battista Alberti.
In tale prolungata stagione di cupo sentire, una ragione di conforto
doveva venire piuttosto dalle prove di qualche rara profonda amicizia,
cementata però sul terreno della vichiana centralità degli ‘ordini civili’.
dirittura d’arrivo […] si medita davvero, come il ‘fastidito’, di ritirarsi…»). Dirà poi
un giorno, avviandosi alla fine: «Non sono mai stato un ottimista, ma oggi ho un senso
di sconfitta della Ragione che non ho avuto nei momenti più cupi della guerra»
(
Colloqui con Eugenio Garin…
, cit
.
, p. 61).
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Lettera del 8 novembre 1974,
AFP
, cart. 10/1. Sono parole il cui tono quasi
trepido forse più si coglie se si legge quanto subito segue, e non mi pare ‘intrusivo’
riportare: «Per il ‘Bollettino’ mi suggerisca Lei qualcosa. La mia testa è vuota e, in
fondo, sono solo stanco».
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Lettera del 12 ottobre 1976,
AFP
, cart. 6/i. In essa si legge un passo importante
che da una impegnativa professione di una ‘convinzione filosofica’ trascorre ad una
vivace espressione di un fastidio per impostazioni meccanicisticamente ‘sociologiz-
zanti’ al tempo correnti: «se sono fortemente convinto dell’unità anima-corpo, mate-
riale-ideale, non mi sento di assorbire un termine nell’altro, né di asservirlo – e nessu-
no mi convincerà mai a ‘estrarre’ le idee di Vico, immediatamente, dall’economia na-
poletana fra Seicento e Settecento, o dai tumulti e dagl’intrighi politici, come non mi
convincerà mai che Petrarca abbia scritto ‘solo e pensoso i più deserti campi’ per lan-
ciare un manifesto neo-feudale».