ENRICONUZZO
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zare talune indicazioni critiche e anticipazioni di un giudizio comples-
sivo su caratteri di quella vicenda.
Così in primo luogo iniziavo a rispondere alla domanda delle ra-
gioni per le quali, a mio parere, Vico, nonché, chiaramente, non essere
l’‘autore’ di Garin, non può essere nemmeno annoverato tra suoi
‘grandi autori’ (altra domanda è quali siano gli autori da lui ‘sentiti’ co-
me più significativi): cominciando a reperirle sul piano di un assai ge-
nerale impianto metodologico, ma sarebbe più giusto parlare di un
perspicuo ‘stile di pensiero storiografico’, poco propenso a individuare
e seguire appunto ‘grandi autori’
2
.
In secondo luogo, anche in relazione a ciò, mi pareva di potere in-
dividuare il principale contributo gariniano agli studi vichiani in una
rilevante lezione di metodo: una lezione ricavabile, oltre che dai ge-
nerali risultati di una precipua riflessione teorico-metodologica, da
diversi apporti critici di specifiche indagini e anche generali prospetta-
zioni interpretative.
In tale direzione mi era parso anche di segnalare una relativa, non
insignificante, continuità della vicenda della riflessione gariniana in te-
ma di ‘studi vichiani’ (nel senso accennato) dal punto di vista metodo-
logico, ma anche, in certa misura, in linea più generale
3
.
Continuare a seguire ora i tratti di ‘continuità’ o viceversa di ‘di-
scontinuità’ di tale riflessione chiama in gioco non soltanto capitoli di
2
In tal senso nella prima parte di questo lavoro mi soffermavo sul contrasto tra la
concezione neoidealistica (e in ispecie gentiliana) della storia della filosofia, e del
rapporto tra filosofia e cultura, e quella gariniana. Quest’ultima, estranea, al contrario
di quella, all’elezione dei caratteri speculativi sistematici e al gusto delle sintesi totali,
non predilige neppure marcare, nonché le cime dei ‘grandi autori’, gli ‘alti’ e ‘bassi’
negli scenari disegnati, ma piuttosto magari preliminarmente ricercare ciò che è
‘prima’ e ‘attorno’ alle figure esaminate. E poi la ‘discrezione’ del gusto di Garin ten-
de, se non a tenere ‘segreti’, a fare trapelare con misura già una qualche predilezione
per autori divenutigli cari (come l’‘amaro’ Leon Battista Alberti particolarmente con-
sentaneo al vieppiù rattristato, malinconico uomo e studioso degli ultimi tempi).
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Già negli anni ’30-’40 – ho sostenuto – Garin, sia pure evidentemente con mino-
re sicurezza di principi metodici e con più limitati apporti di indagine analitica, aveva
collegato strettamente la riflessione vichiana a quella esercitata dalle voci più signi-
ficative della cultura meridionale su problematiche (anzitutto il nodo irrisolto dei rap-
porti tra ‘fisica’ e ‘metafisica’) che attendevano, sollecitavano, nuove risoluzioni, riformu-
lazioni (come era avvenuto segnatamente, con il rovesciamento operato fra i due termini,
in Vico e Doria); e l’aveva in effetti collocata sullo sfondo di un Settecento già plurale,
non ‘metonimicamente’ identificato con un Illuminismo chiusamente razionalistico.
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