tenziava
il presunto «primo vero» di Cartesio da (pretesa)
scienza
a
(effettiva)
coscienza
, non solo chiarendo che «conoscere [
scire
] signifi-
ca […] possedere il genere o la forma [
genus, seu formam
] con la quale
una cosa viene ad essere; mentre invece abbiamo solo coscienza [
con-
scientia
] delle cose delle quali non siamo in grado di dimostrare il gene-
re o la forma»
31
, ma aggiungendo anche – con un colpo d’ascia che nelle
intenzioni di chi lo vibrava voleva essere mortale – che in realtà il
cogi-
to
, in quanto mera coscienza dell’esistere
32
di una mente e di un Io, è
«una volgare cognizione», non bisognosa «per essere trovata» della
«riflessione di un così grande filosofo», ma di una tale banalità che in
essa «può incorrere chiunque, anche un illetterato come Sosia»
33
.
4. Il depotenziamento del
cogito
cartesiano, la sua riduzione da scienza
a coscienza, poteva essere impostato come problema e giungere alla
soluzione che abbiamo indicato perché Vico adottava un criterio di
verità e di scientificità, fondato sul
facere
, profondamente diverso da
quello di Cartesio, centrato sulla
chiarezza
e la
distinzione
delle idee
34
.
ROSARIO DIANA
122
31
De ant
., cap. I, § 2, pp. 32-35.
32
Nella
Risp
.
I
(pp. 143-144; ma cfr. anche
Risp
.
II
, pp. 158-159) Vico spiega che il
cartesiano
cogito, ergo sum
andrebbe tradotto utilizzando il verbo ‘esistere’ e non ‘esse-
re’, dunque: ‘io penso, dunque esisto’, non ‘io penso, dunque sono’. Ciò perché «esi-
stere non altro suona che ‘esserci’, ‘esser sorto’, ‘star sovra’ […]. Ciò che è sorto, da
alcuna altra cosa è sorto […]. Il sovrastare dice altra cosa star sotto» (
Risp
.
I
, p. 143).
All’uomo, dunque, va assegnato l’‘esistere’ e non l’‘essere’, poiché la sua è natura di
attributo. L’‘essere’ spetta solo a Dio, che ha statuto di sostanza e per questo, in asso-
luta autosufficienza ontologica, «sostiene, mantiene, contiene tutto; da lui tutto esce, in
lui tutto ritorna» (
Risp
.
I
, p. 144).
33
De ant
., cap. I, § 2, pp. 32-35. Il riferimento è all’
Anphitruo
plautino e al perso-
naggio di Sosia, servo di Anfitrione. Sosia, indotto nel dubbio sulla propria identità
personale da Mercurio – piantatosi con le sembianze del servo dinanzi alla dimora del
suo signore a Tebe, per consentire a Giove (a sua volta nelle vesti del padrone di casa)
di possedere indisturbato Alcmena, che si era promessa ad Anfitrione –, si trae d’im-
paccio alla fine di un interessante dialogo con il ‘dio ingannatore’ affermando autosal-
vificamente: «Ma quando ci penso, non v’è dubbio che io sono quello che sono sem-
pre stato [
sed quom cogito, equidem certo idem sum qui semper fui
]» (T. M. P
LAUTO
,
Anfitrione
, tr. it. con testo a fronte, Milano, 2002, pp. 142-143, v. 447).
34
Se è vero, come vuole Vico, che le «umane cose» sono dominate da «capriccio,
temerarietà, opportunismo, fortuna» (
De ant
., cap. VII, § 4, pp. 120-121), non si pos-
sono non condividere qui le stringenti osservazioni di Fulvio Tessitore, quando – illu-
minando altri cruciali aspetti del dissidio metodologico di Vico con Cartesio – scrive
che «procedere con il metodo delle idee chiare e distinte in un mondo del quale non
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