centrale è senza dubbio quella del Vico
precursore
, ruolo a cui come pochi
pensatori è stato condannato ad essere ascritto, e «non tanto studiato per quel-
lo che disse e volle essere, quanto per quello che ad altri, consapevoli e il più
delle volte inconsapevoli di lui, avrebbe suggerito» (F. T
ESSITORE
,
Vico e le
scienze sociali
, in questo «Bollettino» XI, 1981, p. 149). Ora, parte del risenti-
mento per questo ruolo di precursore affonda, come è noto, nella reazione alla
storiografia cattolica e a quella idealista che tra Otto e Novecento avevano
proceduto ad una pervicace opera di inquadramento di Vico: nel primo caso,
come colui che aveva anticipato la ripresa cattolica post-illuministica, e nel
secondo, per cui «l’anticartesianesimo di Vico se non è la negazione della filo-
sofia moderna, è però la negazione dell’astrattezza matematizzante della ragio-
ne illuministica, anticipatamente fondata da Cartesio, in nome della concretez-
za della ragione storica romantica, nella quale sfocia […] la sintesi idealistica
hegeliana e neohegeliana, erede e culmine di tutta la filosofia e specialmente di
quella moderna» (ivi, p. 149). Ebbene, questo direzionarsi finalistico della sto-
riografia non ha mai smesso di riproporsi con il rischio di cristallizzare un
determinato pensiero racchiudendolo in una complessa e spesso difficile
genealogia. Anche nel caso del volume di De Rosa, il problema è proprio quel-
lo di individuare una serie di influenze e consonanze, in gran parte legittime,
ma scegliendo alla fine
un
precursore (quando poi tanti sono stati i nomi coin-
volti in questo processo di anticipazione), quasi che Vico, in virtù della supe-
riore ‘equidistanza’ rispetto agli altri, si prestasse ad essere un emblema.
A parte questo, come ho già detto, mi sembra del tutto corretta una lettu-
ra parallela di testi anche così lontani: la storia della cultura ha un compito isti-
tuzionale di tessere una rete fatta di relazioni sottese, di impercettibili conso-
nanze che legano pensieri tanto diversi. Ma in questo senso, se in alcuni punti
la legittimità dell’operazione trova un riscontro testuale, in altri emerge un
forte limite dovuto anche a un fraintendimento dei testi stessi. Mi sto riferen-
do al tema del ‘ricorso’, uno dei più delicati e difficili del pensiero vichiano,
oggetto delle più abbiette divulgazioni (troviamo ormai nel linguaggio comu-
ne l’espressione ‘corsi e ricorsi’ attribuita a Vico che mai la pronunciò), ma in
queste pagine adoperato in modo più sottile e perciò ancor più discutibile.
Riprendendo il passo già citato, rileggiamo che «le citate notazioni di Derrida,
se interpretate alla luce della Teoria delle Catastrofi, ci autorizzano, dunque,
ad affermare che ogni
ricorso
vichiano (ad esempio, un ritorno allo stato di
natura rousseauiano) – in quanto implicante una regressione, un ritorno al
passato – possa essere assimilato ad una catastrofe».
È qui che nascono le maggiori perplessità: il ricorso di cui parla Vico non
è mai un ritorno ad uno stato di natura
originario
proprio in virtù di una sto-
ricità che si esprime come
trasformazione
della natura ‘umana’: nasce invece da
una prevaricazione della ragione nel momento in cui l’estremo verbalismo di
quest’ultima (che sconfina nella raffinatezza più logora), la perdita cioè del
RECENSIONI
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