«HISTORIA SINCERA»
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me veniva evocata e all’interno della quale nessun elemento poteva
mostrarsi per sé dotato di senso. Semmai, è con la lingua eroica che ini-
ziarono ad essere impiegati i primi
segni
nel senso proprio del termine,
cioè referenti concreti indicanti altro: «il secondo parlare, che risponde
all’età degli eroi, dissero gli egizi essersi parlato per simboli, a’ quali
sono da ridursi l’imprese eroiche, che dovetter essere le somiglianze
mute che da Omero si dicono
semata
» (
Sn44
, §438). È proprio tramite
l’uso di questi segni – che secondo il celebre esempio di Idantura, pos-
sono chiamarsi
parole reali
41
– a diventar possibile individuare enti sin-
goli nel mondo, sia in quanto
télos
dell’intenzione significante, sia in
quanto
vettori
del significato. Posta allora tale individuazione è possi-
bile prendere infine a rivolgersi direttamente a quegli enti, alle singola-
rità discrete, distaccandosi progressivamente dal modo olistico del
primo linguaggio divino: l’
onomatopea
nasconde precisamente questa
conquista, ossia la capacità di indicare enti in sé determinati e intenzio-
nare direttamente quelli, come tali, a prescindere dall’orizzonte in cui
il divino può iscriverli. Il canto degli uccelli smette di essere il cenno di
Giove e diventa un semplice suono, che a sua volta può essere usato per
significare
quella valenza religiosa, ma che di per sé si è autonomizzato
e in ultimo ormai reso disponibile anche per altri usi
42
.
Ora, è solo in questa terza fase del corso storico che si può pensare
a qualcosa come a un
significato determinato.
In principio, infatti, non
solo propriamente non c’era la distinzione tra
segni e significati,
ma il
linguaggio non era nemmeno uno strumento per riferirsi intenzional-
mente a una realtà di per sé data e scomponibile in modo discreto nei
suoi diversi componenti. L’immaginazione scopre qui il suo abisso.
Essa non consiste solo dell’immagine superficiale della cosa che possia-
mo formarci tramite l’esperienza sensibile, quanto piuttosto nella
crea-
zione fantastica e poietica
della cosa stessa, la quale prende a esistere per
41
Cfr.
Sn44
, §435.
42
Sul tema, cfr. A. P
AGLIARO
,
Lingua e poesia secondo G. B. Vico,
in I
D
.,
Altri saggi
di critica semantica,
Messina-Firenze, 1961, pp. 297-444; e soprattutto G. C
ANTELLI
,
Mente corpo linguaggio. Saggio sull’interpretazione vichiana del mito
, Firenze, 1986.
Quest’ultimo, è senz’altro un punto di riferimento per evidenziare l’identità di segno e
significato nella
lingua degli dèi,
anche se assai meno condivisibile è la tesi – per altro
ampiamente diffusa nella critica vichiana – della contestuale afasicità di tale lingua, il
cui mutismo non è da intendere come assenza totale di suono quanto invece come
assenza di
voce articolata,
cioè unità sintattico-semantiche autonome. In merito a que-
st’ultima ipotesi di lettura cfr. V. V
ITIELLO
,
Vico. Storia, linguaggio, natura,
Roma, 2008.