puñetazos, solo que los puñetazos de la filosofía se llaman ‘ideas’». Non cedia-
mo, per carità alla metafora orteguiana per non correre rischi!). Intendo accet-
tare, pacificamente, qualche tratto di ‘corpo a corpo’, per rendere omaggio
all’amico generoso, il quale, con tanta generosa onestà intellettuale, si offre ai
suoi lettori.
Da dove parte Sevilla? Da una duplice, informata, costatazione. Il ‘moder-
no’ è, ormai sottoposto a un fuoco di fila di analisi e di crisi, che partono dal-
l’abbandono di una assuefatta interpretazione del moderno come dell’‘età
della sicurezza’ trionfante. Il trionfo del sapere, il trionfo della tecnica, il trion-
fo del potere europeo, patria del ‘moderno’. Ma tutti questi trionfi hanno
generato i ‘mostri’ novecenteschi della ‘ragione’ che è diventata ‘anti-ragione’,
forse perché concepita senza limiti, come ‘ragione assoluta’. E questa amara
costatazione ha indotto a scorgere, come ontologico destino del ‘moderno’,
l’esito nichilistico. Né a caso si è ritenuto che – per uscire dalla tenaglia di ciò
che si riteneva, per abitudine delusa, che fosse il ‘moderno’ – non esistesse
soluzione migliore e più facile (anche se questo attributo non si diceva) che
uscire dal moderno, inventandosi il ‘postmoderno’, con il corredo, imponente
e rumoroso della sua chiacchierologia (questo lo dico io, non Sevilla, sia chia-
ro). Qualcuno più ardito, in vena di scrittura da romanzi, meglio da gazzette,
ha ritenuto che fosse meglio andare ancora oltre e parlare di ‘fine della storia’,
con il consueto corteggio di megafoni, tanto gracchianti quanto assordanti.
Qualche altro, più corposamente, ha evocato lo spettro della ‘guerra tra le
civiltà’, con collegata catastrofe da cui difendersi con le armi della terribile tec-
nologia di distruzione (ahimè proprio quella del ‘moderno’), auspicando che
il suono del nietzschiano ‘rondò della storia universale’ coprisse, fino a distrar-
re, il gemito dei dolori salenti da questo rinnovato ‘mattatoio’ di una nuova
(assai modesta) filosofia della storia. Devo aggiungere che, cedendo a queste
citazioni, non posso liberarmi del tutto dal dubbio se i sullodati cantori le
conoscano, o meglio conoscano i testi da cui derivano. Ma questa è solo un’
infame malignità, del resto poco rilevante dinanzi agli scenari da ‘day after’ dei
campioni mediatici cui ho alluso. Nulla di tutto ciò è in Sevilla, che, tuttavia,
più seriamente si pone il problema del trascorrere dalla ‘crisi della filosofia’
alla ‘filosofia della crisi’. E ciò discute, con informata dottrina da Husserl a
Heidegger, con il conforto di Ortega e di Vico.
Sevilla non si abbandona al fatale destino del nichilismo, non cede ad alcu-
na tentazione di uscita dal moderno verso il postmoderno, non ipotizza nep-
pure alla lontana la ‘fine della storia’, anche per non essere costretto, come il
pubblicitario inventore della bella trovata, a dolersi del mancato arrivo della
‘fine’ diagnosticata, salvo a ritornare speranzoso in campo, per accertare, da
azzeccagarbugli, la sua verità con vicende ben altre quali quelle recenti del
‘risveglio’ dei popoli arabi, che hanno sorpreso i torvi fondamentalisti della
fede dell’Occidente, eterno depositario del vero e del potere, insidiati dai loro
RECENSIONI
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