rifiutati correligionari terroristi (e devo dire che tra i fondamentalisti conser-
vatori dei comodi salotti televisivi dell’Occidente europeo e quelli che, atroce-
mente e vigliaccamente, uccidono e, talvolta, si uccidono, forse sono da prefe-
rire costoro e non i prezzolati cattivi maestri, prodotti tipici del moderno in
crisi). Contro tutto ciò, contro questi discorsi, eticamente ignobili e intellet-
tualmente spregevoli, Sevilla discute gli autori prescelti e ne discute i testi, par-
tendo da una precisa scelta di campo. Detta in breve, questa è la convinzione
e costatazione, ragionata dai suoi ‘auttori’ Vico e Ortega che non è possibile,
neppur pensare di uscire, di abbandonare ciò che il ‘moderno’, la ‘crisi della
filosofia’ e la ‘filosofia della crisi’ hanno scoperto come condizione del sogget-
to della storia, il soggetto del ‘moderno’, della storia del ‘moderno’: la
tempo-
ralità
e la
situazionalità.
Di fronte a tanto la domanda arrovellante di Sevilla è
come conciliare questa determinazione dell’epoca, ossia la sua costitutiva sto-
ricità evitando proprio gli esiti diabolici del Novecento, che egli non conside-
ra un destino irrevocabile, ma appunto una condizione di crisi, nel senso non
già dell’evenienza del nuovo e del diverso, al contrario come rischio di degra-
do, di decadenza. Se ho visto bene la tesi di Sevilla è che proprio la scoperta
della ‘temporalità’ e della ‘situazionalità’, quali dimensioni ontologiche del-
l’uomo moderno, sono la via di soluzione della crisi. Questa è una conseguen-
za, negativa e degenerata, di una ‘ragione assoluta’ che aveva messo in ombra
i ‘limiti’ (che sono la forza) della ‘ragione critica’, quella che Sevilla chiama la
‘ragione problematica’. Questa, in quanto scoperta e criterio del ‘possibile’,
della costitutiva ‘molteplicità del reale’, della ‘elección’ della vita, della scelta
e capacità del pensare, è la via per comprendere, fino in fondo, il moderno
(anche nelle sue crisi, anche le sue crisi). Sevilla capisce l’ineluttabilità dello
storicismo, è disposto ad apparentarsi con lo storicismo, a condizione che que-
sto non sia ‘assoluto’, una manifestazione della ‘ragione assoluta’ o, meglio,
dell’‘assolutezza’ della ragione anziché capacità di critica, di critica della ragio-
ne e ragione critica. Egli si sente vicino allo ‘storicismo critico-problematico’
per lo meno in una sua declinazione possibile, ad esempio quella elaborata da
Giuseppe Cacciatore, non a caso prestando anch’egli attenzione alla ‘narrati-
vità’ della storia e della ragione, che è un modo di tener conto di un altro ele-
mento importante della ragione problematica e dello storicismo, il linguaggio
(e però non nel senso antropologico di W. von Humboldt, ma con concessio-
ni, che non condivido, alla metaforologia del
New Historicism
, che non ha
niente a vedere con lo
Historismus
). Condizione, però, di tutto ciò e delle con-
divisioni di Sevilla è la ritenuta possibile coniugazione dello storicismo con
quella che egli chiama la «perspectiva ermeneutica, epistemologica y metodo-
logica» della «ontología problematista». E dove trova questa ‘ontologia’, senza
cadere – o sperando di non cadere – nella metafisica tradizionale della tradi-
zione occidentale? La trova nella ‘filosofia’, che non è una ‘narrazione’, una
‘conoscenza’, una ‘comprensione’ della realtà e della vita, o, meglio, è tutto ciò
RECENSIONI
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