ha negato definitivamente l’ontologia e la metafisica, o perché ha negato la
propria criticità e problematicità facendosi, tentando di farsi assoluto? La
‘crisi della filosofia’ è il manifesto della ‘filosofia della crisi’, o non è piuttosto
la nostalgia, il rimpianto dell’assoluto ritenuto il solo carattere della ‘filosofia
come scienza rigorosa’? In altre parole la ‘fenomenologia’ husserliana e, più
ancora, la rigorosa riproposizione conservatrice dell’ antica ontologia heiddeg-
geriana, col corredo della sua ‘ermeneutia ontologica’ (sia pure nelle forme
estenuate dell’ermeneutica gadameriana tra ‘verità e metodo’) sono una difesa
del moderno insidiato o un’acuta, fino ad essere astuta e subdola, negazione
del moderno verso il postmoderno, verso la fine della storia, che significa –
almeno in personaggi tragici e importanti come Heiddegger o Saussurre, non
certo in qualche funambolica figurina di giocoliere di parole – rivendicazione
dell’eternità costitutiva del tempo, non certo, come nei secondi, il togliersi l’in-
comodo di ragionare e comprendere ciò che non si sa ragionare e comprende-
re, appunto la forza della storia come costruzione della responsabilità etica
dell’azione dell’uomo? Le mie scelte, le mie opzioni sono tutte quelle del
secondo corno dei suddetti, retorici interrogativi. Il mio storicismo, sulla via
di Max Weber, che sviluppa lo
Historismus
maturo di Dilthey, in fedeltà all’in-
dividuato e non dichiarato storicismo degli Humboldt, dei Niebuhr, dei
Ranke, è il solo ‘istorismo radicale’ che è dato concepire come filosofia della
modernità che ha trovato il proprio senso. Questo non significa negare le crisi,
le difficoltà, i problemi, le sconfitte, i dolori. Significa saper far senza di ogni
forma di teodicea, della sofferenza, della resurrezione, della salvezza e, di con-
tro, capire la ineliminabilità del male come condizione della vita, significa
morire per vivere
non ‘vivere per morire’, significa capire che la vita ‘non è mai
commedia, è sempre tragedia’. Questa è per me, come mi ha insegnato Max
Weber, la vocazione della vita, ossia l’agonistico saper guardare in faccia il
destino del nostro tempo, sapendo che gli sta dinanzi non la ‘fioritura del-
l’estate ma una notte polare di gelida tenebra e di stenti’, che, tuttavia, non è
eterna (anche perché l’eterno non esiste). È uno degli
Augenblicken
, essi sì,
ciascuno, goethianamente e meineckianamente, eterno in quanto eternamente
rinnovantisi attimi nell’incontro tra passato-presente-futuro, che è la condizio-
ne dell’
Ereignis
, in senso storicistico.
Il libro di José Manuel Sevilla è un libro importante per la dottrina che uti-
lizza, per i problemi che squaderna, per l’afflato etico che lo domina, per l’esa-
me di sé che chiede di fare agli uomini di buona volontà. Io ho fatto, qui suc-
cintamente, il mio, convinto elogio del moderno e della sua problematicità.
Vogliamo dire caducità? Lo accetto umilmente, con l’orgogliosa umiltà dello
storicismo radicale.
F
ULVIO
T
ESSITORE
RECENSIONI
81